A ME PUOI DIRLO, di Catherine Lacey
Una domenica mattina gli abitanti di un paesino di provincia trovano addormentata sulla panca di una chiesa una persona sconosciuta. Ha un’età giovane ma indefinita, la pelle di un colore diverso dalla loro, e a prima vista è impossibile stabilire di che sesso sia. Capisce la loro lingua, ma si rifiuta di parlare e raccontare la sua storia. La comunità, unita da una forte fede religiosa, si dichiara pronta ad accoglierla: ma sarà in grado di farlo davvero?
Di fronte a questa persona che non racconta nulla di sé ogni abitante di questo paese inizia a raccontare qualcosa di se stesso e di se stessa. Di fronte al silenzio del proprio interlocutore ogni cittadino di questo paese si sente legittimato a parlare, a dire qualcosa, a ribellarsi di fronte al silenzio del proprio interlocutore.
Quanto siamo capaci di stare nel silenzio dell’altro? Quanto siamo capaci di stare di fronte a qualcuno affrancandoci dal bisogno di incasellarlo, etichettarlo, di definirlo? Siamo capaci di accogliere l’altro senza farlo rientrare nelle nostre categorie di interpretazione del mondo? È più facile aprirci con chi non ci mette di fronte un’identità precostituita?
Ciò che appare veramente convincente di questa narrazione è che durante la lettura non abbiamo veramente mai un volto in mente. Nella nostra fantasia aleggia un fantasma, esattamente come l’immagine in copertina. Non abbiamo un’identità, quanto meno precostituita secondo i canoni sociali, di conseguenza non c’è volto, non c’è sguardo, non c’è corpo. Quanto il nostro volto, il nostro sguardo e il nostro corpo esprimono la nostra identità?
Recensione di Rita Maria Esposito
A ME PUOI DIRLO, di Catherine Lacey
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