Abbiamo intervistato Davide Grittani che ci ha parlato del suo ultimo romanzo “Il gregge”

Abbiamo intervistato Davide Grittani che ci ha parlato del suo ultimo romanzo “Il gregge” e condiviso alcune importanti riflessioni sui pesanti temi affontati in quest’opera e negli altri suoi lavori

 

Intervista n. 207

 

Davide Grittani (foto Nicky Persico)

 

 

Per prima cosa, le chiedo di presentarci il suo ultimo romanzo Il gregge. Scontato chiederle dove le è venuta l’ispirazione, mi incuriosisce piuttosto sapere quali sono, se ci sono, degli autori che in qualche modo ha preso come riferimento. L’opera rappresenta un perfetto spaccato della realtà odierna, dove l’etica non è più voluta dal gregge come una virtù. Quali sono a suo avviso le cause di un simile impoverimento culturale?

«Da tempo osservavo e prendevo appunti sulle reazioni delle persone di fronte al compimento di determinate scelte che dovrebbero aver a che fare con la nostra dignità, come per esempio l’atto del votare. E man mano che lo facevo, mi rendevo conto che la mia vera ambizione era cercare di interpretare queste reazioni, provare a leggere questi sentimenti. L’apocalisse etica e il collasso politico sono considerazioni che sono venute poi, durante la stesura del romanzo. E che hanno giustificato, almeno in parte, la mia iniziale curiosità. Perché i nostri gesti, quindi le nostre reazioni e le nostre scelte, non sono più coordinate da alcuna passione, da nessun sentimento e men che meno dalla dignità, ma solo dal bisogno. Sono state sovrapposte la linea del consenso e quella del bisogno, ecco perché i risultati delle elezioni possono variare così rapidamente anche in brevissimo tempo. Non si tratta solo di un impoverimento culturale, ma di una politica così spregiudicata e feroce che ha saputo prendere per la gola gente che non aspettava altro che lo facesse… forse per commettere per primi il passo verso il baratro».

 

 

 

I soldi sono da sempre il primo motore alla base di crimini, guerre e imprese di ogni genere. Quanto è difficile contrastare il “Dio Denaro”?

«Impossibile direi. Perché ogni ragionamento è stato impostato sulle ragioni del più forte, sulla logica del mainstream e del pensiero dominante. Ecco perché il gregge è un’identità, non un fenomeno. Ci muoviamo tutti intorno, e possibilmente, dentro questa bolla di opportunismo, questa piccola fabbrica di illusioni in cui si genera ogni distorsione etica della società. Chiunque non ne fa parte è tagliato fuori, diventa “uno straniero” o al più “un tipo strano” con cui avere poco a che fare. Per il semplice fatto che è stato disperso ogni valore pedagogico e democratico del dissenso: o la pensi come il gregge, o sei un tipo strano da tenere alla larga».

 

La propaganda elettorale è ormai ridotta a una sorta di circo, una sfilata di ipocrisie e contraddizioni ben rappresentata in quest’opera, quanto c’è di grottesco e quanto di strategia secondo lei in questo meccanismo?

«Le campagne elettorali, specie quelle italiane, testimoniano né più né meno lo stato di imbarbarimento del nostro universo emozionale, delle nostre passioni civili. Eppure alla base delle campagne elettorali si consuma il più grande tradimento etico possibile, partendo dalle radici etimologiche della parola “promittere”: una specie di assunzione di garanzia, la firma immateriale sotto il trattato non scritto di chi garantisce che ci si può fidare. Questa nobiltà non solo è stata tradita completamente, ma è venuta meno anche l’idea che serva qualcuno di fidarsi, che al contrario servendosi di quelli dei quali non ci si può fidare tutto diventa più semplice perché viene meno qualsiasi vincolo morale… quindi si è più liberi di trattare. Durante le campagne elettorali si consuma la più grande offesa alla dignità e all’intelligenza delle persone, eppure nessuno dice nulla nemmeno di fronte alle più grandi sciocchezze professate per enfasi o semplicemente per necessità cinica della menzogna (tipo “uno vale uno”, forse una delle più grandi sciocchezze consumate in questo Paese dal dopoguerra a oggi). La domanda vera, semmai, perché la gente non ha eretto un sistema immunitario più efficiente? Perché non ha sviluppato anticorpi più funzionali allo sbarramento di queste menzogne? La risposta è nel gregge, non propriamente nel mio romanzo… per quanto anche in esso. Ma nel bisogno di farci rappresentare tutti insieme, perché tutti insieme le colpe non possono essere attribuite e le assoluzioni ricadono su tutti».

 

 

 

 

Alla fine della lettura risulta difficile riconoscere una differenza netta tra “vittime e carnefici”, quasi come se nessuno meritasse una vera propria assoluzione, condivide?

«Infatti, non vi è alcuna differenza. Per il semplice fatto che alle colpe che sembrano di pochi, hanno contributo in realtà tutti. Come? Innanzi tutto votandoli, dando fiducia a persone che non la meritavano».

 

Fuori da ogni schema pesa sulla coscienza individuale la domanda “Io farei la scelta giusta?”

«Non conta solo la giustezza di una scelta, conta soprattutto quanto ci si sente apposto con sé stessi dentro le proprie scelte e le proprie decisioni. Quanto ci si sente a proprio agio dentro le determinazioni di una vita, non cosa avremmo fatto al posto di qualcuno… Essere al posto giusto, dentro le nostre vite e soprattutto dentro le nostre dignità, è già un ottimo punto di partenza per capire se ci si riconosce ancora».

 

Oggi siamo sempre pronti a erigerci a paladini della legalità ma quanto è difficile concretizzare i propri ideali?

«Torniamo alla risposta precedente, in qualche modo. C’è gente che si riconosce nelle cose che fa, e questo va benissimo. Io, fuori dalla porta di un assessore comunale o regionale, a pietire qualcosa per me o per un mio famigliare, non mi ci vedo. Infatti, me ne sto alla larga dal farlo. Ma questi non sono ideali, è solo dignità. Alla quale abbiamo sottratto qualsiasi riconoscibilità immateriale, buttando ogni discorso sulla caciara politica… Invece è innanzi tutto dignità, dignità personale».

 

 

 

 

Nel suo romanzo La bambina dagli occhi d’oliva affronta il problema del silenzio degli adulti nei confronti dell’infanzia/adolescenza abusate. Quale contributo può dare secondo lei la narrativa nel sensibilizzare nei confronti di un tema così profondo?

«Enorme. La narrativa contemporanea ha taciuto sulle responsabilità e sulle umiliazioni che la società adultocentrica ha causato ai bambini, cancellando per esempio la pedofilia dai romanzi e dai racconti contemporanei: perché scomoda, perché non vende, perché fa stare male chi la legge. Ma non è forse la scrittura che deve aprire la testa di chi legge, e non il contrario?»

 

Altro tema importante, ben affrontato in La Rampicante è quello dell’etica della donazione degli organi. Perché se ne parla sempre meno a suo avviso?

«Anche in questo caso, perché non si tratta di argomenti mainstream, che fanno vendere, che fanno luccicare gli occhi e promettersi amore eterno come vorrebbero molti editori e tantissimi Lettori. Ma questa comodità, questa leggerezza nelle nostre letture, ha finito per sottrarre qualsiasi profondità ai temi della narrativa contemporanea, privandola della sua funzione originaria e soprattutto della sua funzione etica. Ecco che la scrittura è divenuta essa stessa materiale di consumo, bene commestibile come qualsiasi altro oggetto. Di conseguenza, meno fa riflettere e meglio è. L’Italia è uno dei Paesi più indietro in Europa per le donazioni di organi, la Spagna è prima in maniera irraggiungibile. Entrambi sono paesi ultracattolici, ma mentre in Italia vige un chiusura medievale sulla integrità del corpo alla sepoltura con la conseguente negazione di ogni altra pratica anche se ha a che fare con la bellezza stessa della vita, in Spagna si gode a pieno del miracolo della creazione dandole più di una opportunità… Lei trova queste considerazioni da qualche parte sui nostri giornali?»

 

Come ultima domanda, ringraziandola per la sua disponibilità, le chiedo che rapporto ha con i social, un mondo che raccoglie parecchie delle problematiche presenti nel suo ultimo romanzo con l’aggravante dell’apparente sicurezza dell’anonimato.

«Li uso prevalentemente per lavoro, sono un luogo in cui la gente che mi cerca può trovarmi con una certa facilità. Ma senza ostentare alcuna superiorità né etica né intellettuale perché non me le posso permettere, non credo che i social possano rappresentare un territorio in cui ospitare i propri sentimenti, le proprie ambizioni, le proprie emozioni e le proprie passioni senza lasciar trapelare il seme primordiale alla base di questo frutto. Cioè la vanità. I social sono un terreno estraneo alla neutralità, in cui anche le migliori intenzioni diventano merce. Ci sono coniugi che si fanno gli auguri di compleanno, sui social. Scrittori che annunciano di aver cominciato il nuovo romanzo, sui social. Persone che ricevono cartelle esattoriali e si vantano di non pagarle, sui social. Gente che pubblica la pagella dei propri figli, o l’esito degli esami per vedere se sono affetti da un cancro, sui social. Ecco perché per me restano uno strumento di lavoro, che non ha avvicinato le nostre vite. Le ha incredibilmente allontanate. Basti pensare alla spregiudicatezza di alcune affermazioni sui social, e alla timidezza che si sprigiona quando la persona alla quale erano dirette si presenta di persona. Ecco, i social ci hanno disabituato alla carne, al sangue e alle ossa».

Intervista di Enrico Spinelli

 

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