Abbiamo intervistato Federica Manzon che ha approfondito alcuni interessanti aspetti del suo ultimo romanzo “Alma” e della sua narrativa
Intervista n. 206
Come prima domanda le chiederei con quali elementi ci presenterebbe il suo ultimo romanzo ‘Alma”.
Nei tre giorni della Pasqua ortodossa Alma torna a Trieste per ricevere l’eredità di suo padre dalle mani di Vili, quel bambino arrivato da Belgrado che per lei è stato un amico, un amante, un antagonista, l’ultima persona che Alma vuole vedere dopo essere stati dentro la guerra jugoslava insieme. Alma è Trieste. La sua storia è il confine, il mare che entra in città e determina tutto, la Mitteleuropa e i Balcani alle porte, il Maresciallo Tito, i matti di Basaglia che escono in città. Alma è la storia di una donna che fa i conti con il monito di suo padre: “la geografia ha sempre la meglio sulla Storia”, e che torna a casa in quella sua città a est, sapendo che casa è il posto che abbiamo sempre già abbandonato, che non è più per noi a portata di mano.
Quali sono state le fonti di ispirazione che l’hanno spinta verso questa storia?
Il libro nasce dal mio amore per Trieste, per le sue anticonformiste abitudini e le sue tante anime sempre pronte a litigare tra loro, un amore senza ragione. Per quello che Trieste è: una città affacciata su un confine che il cuore dell’Europa, una città dove la Storia e la geografia si sono spesso scontrate anticipando i tempi. E nasce da un’inquietudine, quella di Alma e di chiunque se ne sia andato dai propri luoghi inseguendo il richiamo di un altrove, delle molte vite possibili di là da casa, inseguendo storie di famiglia e d’amore che sono sempre storie di fraintendimenti e fughe, e cercando in questo andare e tornare di fare i conti con la nostra storia, chi noi siamo, con le nostre radici.
Trovo che in questo romanzo la trama si sviluppi quasi come un quadro, con pennellate che definiscono via via le sfumature dei protagonisti, concorda?
Non saprei, ma mi piace l’immagine perché per me era importante che la storia avesse un corpo, di potesse vedere e quasi toccare.
Quali sono le caratteristiche principali dei protagonisti di questa storia?
Ognuno di loro deve fare i conti con un’identità complicata, figlia del confine. Il padre di Alma, nato nel sogno jugoslavo, deve fare i conti con la fine di quel sogno e si trova a perdere tutto nella guerra, non solo gli amici e il lavoro, ma perde il suo paese perché alla fine della guerra la Jugoslavia non esisterà più – allora chi era jugoslavo cosa sarà? La madre di Alma, cresciuta all’ombra del mito austroungarico dei suoi genitori, della mondanità colta e cosmopolita della città, da quel mondo si sente giudicata e fugge trovando lavoro nella Città dei matti, dove tutto è messo in questione, iniziando dal confine tra follia e normalità. Vili, il ragazzino arrivato da Belgrado che vivrà con Alma gran parte della sua vita chiedendosi sempre, a che mondo appartengo? Ditemi chi sono, che lingua devo parlare! E Alma tutte queste contraddizioni le porta in sé.
All’inizio dell’opera vediamo che il padre di Alma è in rapporti con una figura storica controversa come Tito. Secondo lei ad oggi quanto si è capito di questo personaggio storico?
Credo sia poco conosciuto, ma è un personaggio affascinante: seppe tenere insieme i popoli, disobbedire al piccolo padre russo e farla franca, sedurre l’Occidente, era omaggiato da ogni governo, dalle star di Hollywood, dagli intellettuali. Ricostruì la Jugoslavia nel sogno della fratellanza e l’unità dei popoli, e seppe tenerla in equilibro tra il mondo diviso in due dalla Guerra fredda. Si ribellò fino all’ultimo alla fine. “I dittatori non lasciano mai un successore” profetizzò con lucidità vedendo in anticipo la fine della Jugoslavia. Fu salutato con un funerale epico: la bara portata sul treno azzurro che attraversava tutte le repubbliche, la gente a fianco delle rotaie con i fiori e il cappello in mano, i leader di tutto il mondo a rendergli omaggio.
Lei è molto attenta nella creazione di personaggi complessi e “da scoprire” , e penso anche a un altro romanzo quale “Di fama e di sventura”. Quali sono le difficoltà nel plasmare queste figure così peculiari?
Credo sia importante il tempo. Io scrivo lentamente, i personaggi e la storia crescono in me negli anni, poi impiego altri anni a scrivere un romanzo: così i personaggi si stratificano, cambiano, acquistano sfumature e dettagli, diventano per me più reali delle persone in carne e ossa.
Un elemento che ricorre è la Jugoslavia, che rapporto ha con questa terra?
La Jugoslavia è sempre stato per me un altrove vicinissimo a casa, familiare, eppure completamente straniero. Un mondo dove sento ancora vive moltissime storie, un’anima, e qualcosa che mi riguarda senza che sappia ben dire perché. Per lo stesso motivo per cui, quando sono a Milano o Roma e sull’autobus sento parlare in sloveno o in serbo-croato, lingue che pur non parlo, sento una stretta di intima familiarità, come se io stessa appartenessi più a quel mondo che alle città a ovest della nazione dove pur ho finito per abitare, provvisoriamente.
Un’altra cosa che ho notato è come la sua prosa fugga dalla categorizzazione stilistica. Ci sono, se vogliamo, elementi dei generi letterari più disparati senza che necessariamente uno prevalga sugli altri, condivide?
Quando scrivo cerco di trovare una lingua, uno stile, che sia il più possibile mia, che si accordi al mondo che racconto e che da lì riverberi.
È fuori da ogni dubbio che oggi la condivisione e i giudizi passino sempre più spesso per i Social, le chiedo qual è il suo rapporto con questa dimensione.
Naturalmente anch’io uso i social, per condividere foto che mi paiono belle, per parlare dei libri che mi piacciono, soprattutto per fotografare e dire Trieste. Ma questo è un divertimento. Mi piace se i social diventano un mezzo per entrare in contatto diretto con i lettori o con i librai, un modo più veloce per avvicinarci e ascoltarci. Poi tutto quello che per me ha a che fare con lo scrivere e ragionare sui libri, il mio personale mondo di farlo, accade fuori social e ne rimane molto separato.
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