Abbiamo intervistato Franco Vanni, tra giornalismo sportivo e romanzi gialli
Intervista n. 234
Sei anni fa scriveva il suo primo romanzo giallo “Il caso Kellan”. Qual è stata la scintilla che l’ha spinta a cimentarsi con questo genere?
“Al tempo per Repubblica, il giornale per cui lavoro da vent’anni, mi occupavo di cronaca nera. A furia di raccontare delitti veri, sono finito per inventarmene uno anche io! Da sempre sono un divoratore di libri gialli, ne ho letti a centinaia”.
Quanto ha aiutato la sua esperienza come giornalista di “nera” per calarsi nella dimensione del giallo?
“È un aiuto enorme, perché scrivendo di cronaca nera e giudiziaria impari l’essenziale della procedura penale e del meccanismo di un’indagine. Inoltre, essere “vicino al crimine”, occuparsene professionalmente, aiuta a comprendere le logiche – o più spesso la mancanza di logica – che spinge a commettere i delitti”.
Che profilo traccerebbe per definire Steno Molteni?
“È il giornalista più fortunato del mondo. Vive in hotel. La sera lavora come barman, mestiere che ho fatto da ragazzo e che mi manca tantissimo. Guida una Maserati d’epoca. Ha un capo comprensivo, che gli lascia fare più o meno quello che vuole. E soprattutto … è giovane!”.
Nel 2019 è uscito il secondo romanzo con questo protagonista, “La regola del lupo”. Quali cambiamenti ha portato questa seconda opera al suo personaggio?
“La Regola del Lupo è più cupo e più intimo, rispetto al Caso Kellan. E l’omicidio da cui nasce la storia avviene a Bellagio, il meraviglioso paese sul lago di Como di cui Steno è originario. Diciamo quindi che Steno si riavvicina alle proprie radici”.
Ci saranno altre storie con Molteni in futuro?
“Certo! Sto scrivendo la nuova storia, pur con grande lentezza, ammetto. Sarà in parte ambientata nel mondo del calcio, e avrà personaggi femminili in primissimo piano. Da cinque anni mi sono spostato alla redazione Sport del giornale, e voglio raccontare il pallone da un punto di vista un po’ diverso. Mi piacerebbe pubblicare nel 2025, spero di fare in tempo. Intanto, nel 2022 ho fatto una cosa difficile, dolorosa e bellissima al tempo stesso: ho portato a compimento “La Mantide”, romanzo che il mio amico fraterno Gianluca Ferraris, che non c’è più, stava scrivendo. Ha lasciato come volontà l’indicazione che fossi io a finirlo”.
L’anno prossimo saranno 10 anni dal suo primo romanzo, “Il clima ideale”. Cosa pensa a distanza di tempo di quell’opera?
“È tantissimo che non prendo in mano quel libro, ma ovviamente gli sono molto affezionato. Ci sono tante mie passioni, a partire dai Balcani, e riferimenti personali. Prima finisco il nuovo giallo con protagonista Steno, poi lo rileggerò”.
Quali sono a suo avviso le difficoltà nel lavoro del giornalista ai giorni nostri con il crescente aumento dell’autoinformazione attraverso internet?
“La grande difficoltà oggi è, per tutti, la mole di lavoro. Ho cominciato in un epoca, i primissimi anni Duemila, in cui il cuore dell’informazione erano le tv generaliste e i quotidiani di carta. Oggi con Internet lavoriamo molto di più. Non bisogna fare solo l’articolo della sera, che uscirà in edicola l’indomani, ma un’infinità di altre cose: video, brevi pezzi per Internet, eccetera. È stimolante ma è faticoso. Poi, certo, c’è il tema del giornalismo diffuso e delle “verità alternative” che si diffondono nel web. Proprio per questo – per contrastare la diffusione di false informazioni, spesso diffuse ad arte – penso serva un giornalismo professionale e qualificato”.
Tra i mezzi di comunicazione e di condivisione ci sono sempre più spesso i Social, qual è il suo rapporto con questa realtà?
“Mi diverte Twitter/X. Su Instagram guardo le foto degli amici e raramente ne metto di mie. Facebook lo uso poco. Sono troppo vecchio per TikTok”.
Mi ha sorpreso molto, da non sportivo, il suo saggio “Il calcio ha perso” del 2022. Volendolo immaginare in chiave “giallo” chi pensa sia il colpevole principale di questa sconfitta?
“La mancanza di regole sugli ingaggi dei calciatori! Guadagnano cifre che i club faticano a permettersi, e da lì, a cascata derivano tutti gli altri problemi: si gioca troppo per cercare di guadagnare di più e ci si affanna a cercare soldi anche dove non ci sono. È un evidente disequilibrio”.
Le faccio un’ultima domanda. Se da non addetto ai lavori devo pensare a dei momenti dove ho trovato l’umanità e una qualche forma di vittoria morale nel mondo del calcio devo ammettere di pensare a due fatti drammatici che riguardano la squadra della mia città (la Fiorentina) e in particolare alla morte di Davide Astori e al recente malore di Edoardo Bove. Che idea ha lei in proposito? E cosa pensa si debba fare perché il calcio torni a vincere?
“Ho seguito da vicino la vicenda del malore di Bove, fermandomi a Firenze per diversi giorni. Il tema è delicato. In Italia abbiamo uno dei migliori protocolli sui malori in campo del mondo. Qui i malori mortali in campo negli sport sono un decimo rispetto alla media dei Paesi del comitato olimpico internazionale, come sottolinea Maurizio Casasco, presidente dei medici sportivi italiani ed europei. E siamo molto severi, tanto nella prevenzione quanto nella regolamentazione: da noi con un pacemaker non puoi giocare, a differenza che in Inghilterra. Il tema è il ritmo: oggi un calciatore corre il doppio dei chilometri rispetto a 15 anni fa e il cuore ha molte più sollecitazioni. Bisogna rendere i controlli sullo stato di salute dei giocatori sempre più efficaci”.
Intervista di Enrico Spinelli
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