
Abbiamo intervistato Gabriele Marangoni con il quale abbiamo affrontato il suo background professionale e le sue opere, partendo dall’ultimo “Pocket Symphonies“

Prima di tutto grazie per aver accettato questa intervista. Per cominciare mi piacerebbe sapere qualcosa sul tuo percorso formativo.
Prima di tutto, grazie a te per l’invito. Provo a essere sintetico, ma non sarà facile (ride, ndr)! Ho cominciato a “strimpellare” le tastiere all’età di tre anni, incuriosito da uno strumento che, in verità, era stato regalato a mia sorella. Dopo circa dieci anni di pianoforte in diverse scuole di musica private locali, mi sono iscritto in Conservatorio a Mantova per studiare Composizione. Quello è stato un vero punto di svolta: mi si è aperto un mondo fatto di musica meravigliosa, di concerti, di libri e di spartiti che mi accompagnano ancora oggi. Come scrivo nell’introduzione a “Pocket Symphonies”, gli anni del Conservatorio sono stati anche quelli in cui ho cominciato a interessarmi davvero al rock grazie a mio papà, che nel frattempo era ben felice di scarrozzarmi in giro per Mantova e provincia a suonare Deep Purple, Led Zeppelin e Jethro Tull con i primi gruppi con cui mi esibivo. Come sempre, un’opportunità genera altre opportunità, e nel giro di pochi anni, mentre studiavo Architettura all’università, mi sono ritrovato a suonare, tra gli altri, con le Custodie Cautelari e i loro tanti ospiti illustri (da Maurizio Solieri e Cesareo al compianto Alberto Radius) e con i Big One, uno dei più apprezzati tributi ai Pink Floyd in circolazione, richiestissimi anche all’estero (ho avuto la fortuna di condividere con loro il palco per alcune date in Olanda). Nel 2015, per cause di forza maggiore, mi sono dovuto fermare per qualche mese, e quasi per caso ho cominciato a scrivere le prime recensioni per Metal.it come “ghost writer”, incuriosito dalla celebre rubrica “And Reviews For All”. Com’è andata a finire lo sai anche tu (ride, ndr)…
Essendo praticamente coetanei siamo entrambi cresciuti in un periodo in cui Internet non aveva le potenzialità di oggi e certi canali di diffusione musicale erano agli inizi o nei nostri sogni. Come sei arrivato a maturare la conoscenza che emerge nelle tue opere e nella tua attività di divulgazione?
Ammetto di essere stato un privilegiato, nel senso che sono stato tra i primissimi ad avere accesso a Internet nel mio comune all’età di pochi anni. Detto questo, oltre a un’innata curiosità, una grossa fetta di responsabilità va data sicuramente ai miei genitori che in casa hanno sempre avuto dischi e libri in quantità. Soprattutto per quanto riguarda la musica ricordo copertine irresistibili, come la celebre mucca di “Atom Heart Mother” o l’iconico vagabondo di “Aqualung”: come faceva a non venirti voglia di ascoltare quegli album (ride, ndr)?
Non so te ma personalmente, senza volere essere nostalgico, trovo molto romantico ripensare a quando ti affidavi più al passaparola o a un’intuizione piuttosto che a una lettura nella scelta di cosa leggere o ascoltare, cosa ne pensi?
Negli anni, come è facile intuire, ho parlato di musica con un sacco di persone, e mi sento di dire che per me la proporzione è 50/50. Mi affido spesso ai consigli altrui, ma altrettanto spesso una recensione ben scritta esercita ancora su di me un fascino irresistibile (ride, ndr)!
Veniamo ora al tuo nuovo libro “Pocket Symphonies“. Come ti è venuta l’idea di trattare questo argomento? E con quali parole presenteresti quest’opera?
Ti confesso che penso a questo libro da diversi anni, ma sapevo anche che non avrebbe mai potuto essere un “primo libro” per complessità dei temi trattati e per “credibilità” dell’autore: so che Dan Brown va in ansia ogni volta che esce un mio libro, ma credo anche che possa stare sereno ancora a lungo (ride, ndr)! Scherzi a parte, ricordo bene nel lontano 2008 una delle ultime discussioni con il mio Maestro di Conservatorio, al quale confidai una “vita parallela” come rocker in giro per l’Italia. La sua reazione mi gelò: mi disse, con sufficienza che, se volevo suonare le canzoni con gli amici, ero libero di farlo, ma la sua disapprovazione era evidente. Alla faccia della “pari dignità” tra generi musicali diversi e della musica come condivisione di esperienze ed emozioni. Forse è stato proprio quello il momento in cui, nella mia testa, ho cominciato a interrogarmi sulle tante affinità che avrei voluto e dovuto mostrare al mio Maestro tra la musica “colta” e la musica “di consumo”, che poi è il vero tema intorno al quale ruota l’intero “Pocket Symphonies”.
Quando tratti un argomento così vasto e ricco il timore è quello di essere troppo prolissi o troppo superficiali, cosa che nel tuo caso non è successa. Quali obiettivi ti sei posto e quale ragionamento hai fatto per raggiungere un risultato così equilibrato e completo?
Grazie di cuore per le belle parole. C’è un detto, nel quale credo molto, che afferma: “Non sarai mai pronto, comincia e basta”. Non è per deresponsabilizzare, ma per prendere coscienza del fatto che l’onniscienza, in qualunque campo, non appartiene a nessuno di noi (e io non faccio di certo eccezione). Sono consapevole (e lo accetto) che, se avessi scritto “Pocket Symphonies” tra qualche anno, sarebbe venuto fuori diversamente, poi non so dirti se meglio o peggio (ride, ndr)! Per indole, cerco di essere sempre “essenziale”: preferisco farti venire voglia di ascoltare un disco concentrandomi su pochi dettagli per me importanti piuttosto che raccontarti vita, morte e miracoli dello stesso. Qualcuno considera questo approccio superficiale? Pazienza. Bisogna alzarsi da tavola con ancora un po’ di appetito, non da non poterne più di mangiare, almeno io la penso così (ride, ndr)! I ragionamenti di cui parli, come puoi immaginare, sono stati tantissimi. Alcune scelte, personali e opinabili come sempre, hanno naturalmente indirizzato la scrittura in un senso piuttosto che in un altro, ma alla fine credo di aver raggiunto l’obiettivo che mi ero prefissato di indagare quelle che, a mio giudizio, sono le principali aree di influenza del rock sulla musica classica e viceversa.
Immagino la quantità di materiale che avevi sul quale lavorare. Quanto è stato faticoso scegliere cosa inserire e cosa lasciare? E quale criterio hai adottato?
In questi casi la fatica è davvero indescrivibile (ride, ndr)! Ho ancora un elenco di spunti che ho lasciato fuori, ma non credo che bastino per un’edizione aggiornata (ride, ndr)! Tornando alla domanda, il criterio (come scrivo anche nell’introduzione), è stato tutto sommato semplice: ho riportato molti dei titoli e degli artisti più celebri citati anche dagli “esperti”, ma anche tanti altri lavori e artisti “minori” che ho ritenuto coerenti con i percorsi logici esposti nel saggio. Sulla bontà delle scelte, poi, decideranno i lettori (ride, ndr)!

Una cosa che da sempre mi fa riflettere: si dice che gli eredi diretti della musica classica siano il Jazz e l’Heavy Metal. Quali sono a tuo avviso le caratteristiche che questi due generi hanno mutuato da un universo apparentemente tanto lontano come quello della classica?
Ecco, questa cosa ad esempio non la sapevo nemmeno io (ride, ndr)! La risposta potrebbe essere molto articolata, ma voglio limitarmi a pochi e semplici aspetti. Si tende a “liquidare” la musica classica come la musica “dei pentagrammi”, ma ci si dimentica che molti dei compositori più apprezzati, da Bach a Mozart, erano degli eccellenti improvvisatori, proprio come lo sono sempre stati i jazzisti. Nel caso dell’heavy metal posso citare un certo gusto per l’arrangiamento non scontato, per l’epicità e per le tematiche nobili che abbracciano molteplici sfere, dalla letteratura (penso agli Iron Maiden di “The Rime of the Ancient Mariner”) alla pittura (è il caso di un artista riconoscibilissimo come Travis Smith, che associ immediatamente a questo genere musicale).
Passiamo ora alle tue opere precedenti. Nel 2022 pubblichi “Rock Keybord (R)evolution” dedicato alla storia delle tastiere nel Rock. Sappiamo che da una certa frangia di pubblico sono trattate alla stregua di una “Cenerentola”: quale credi sia il loro reale valore e il loro contributo alla musica di qualità?
È incredibile come il rock, direi nei primi anni Novanta, abbia completamente “voltato le spalle” alle tastiere e ai tastieristi in genere. Te lo immagini un disco degli Yes o dei Duran Duran senza tastiere? Dobbiamo davvero discutere sul fatto che la musica contenuta in “Close to the Edge” o in “Rio” sia “musica di qualità”? Non credo proprio. Mi sembrava doveroso celebrare quei musicisti che forse qualche enciclopedia del rock citerà tra un nome e l’altro, ma che le nuove generazioni rischiavano di dimenticare troppo velocemente in favore dei “soliti”, inarrivabili chitarristi. Poi sai, da tastierista era anche una questione di orgoglio personale (ride, ndr)!
Nel 2023 invece ti sei dedicato a un’altra “Cenerentola” per così dire, gli amati/odiati dischi natalizi con “The Sound of Christmas“, un viaggio attraverso una serie di uscite più o meno famose e di ogni genere legate alla festività natalizia. Cosa ti affascina di questa realtà e cosa consiglieresti agli scettici, a parte comprare il libro ovviamente?
Associo i dischi natalizi a quei lunghi e piacevoli periodi invernali passati in famiglia ad addobbare alberi e a decorare la casa. Poi lascia stare che io a Natale sia più simile al Grinch che a Babbo Natale (ride, ndr)! Ho cominciato a collezionare “holiday album” piuttosto presto e, sorpreso dalla mancanza di un testo dedicato, ho provato a colmare questo vuoto con il supporto fondamentale, ancora una volta, del mio editore Arcana. A distanza di oltre un anno resto convinto di aver selezionato cento dischi meritevoli di attenzione, che potrebbero far ricredere anche molti degli “scettici” di cui parli.
Tu scrivi da anni sul portale Metal.it, ti andrebbe di spendere qualche parola su questa esperienza e sul valore che ha nella tua crescita musicale e umana?
Non ringrazierò mai abbastanza Gianluca Grazioli per l’opportunità che mi ha dato nell’ormai lontano 2015. Ho cominciato a scrivere “seriamente” di musica proprio su Metal.it, e il confronto quotidiano con colleghi appassionati e preparatissimi è ancora oggi, per me, uno stimolo a migliorare continuamente come ascoltatore e non solo. Per non parlare, poi, delle tante interviste fatte negli anni ai miei idoli, da Arjen Lucassen a Neal Morse, passando per Tony Levin e Jordan Rudess. Quindi lunga vita a Metal.it!
Rimanendo più o meno nel settore, qual è il tuo rapporto con la dimensione dei Social e quanto li ritieni utili nella divulgazione?
In un mondo di “illustri sconosciuti”, la dimensione Social è, nel bene e nel male, imprescindibile. Se non sei presente su “quelle” piattaforme è come se non esistessi (e anche se ci sei, non è detto che serva a qualcosa). Detto questo, è proprio grazie ai Social che, ad esempio, sono entrato in contatto con Donato Zoppo, Marco Masoni e Massimo Padalino, i tre magnifici autori che hanno firmato le prefazioni dei miei tre libri, per cui è giusto segnalare anche le cose buone che emergono in questi contesti “insidiosi”. Sull’utilità nella divulgazione, credo che serva tempo per intravedere qualche risultato. Riparliamone pure tra qualche anno (ride, ndr)!
Come ultima domanda una curiosità. Dati i tuoi tanti interessi, è ipotizzabile in futuro un’opera dedicata al connubio tra Rock e il mondo dei cartoni animati?
Sai che l’idea non è male? Esiste diversa letteratura sulla musica dei cartoni animati (molti titoli sono citati anche su “Pocket Symphonies”), ma non con il taglio “rock” che probabilmente hai in mente tu. Chissà. Però ti devo confessare che al momento sono concentrato su altro, e ne avrò per un po’. Quando tra qualche anno riparleremo dei Social e della loro utilità nella divulgazione ci aggiorniamo anche su questo (ride, ndr)!
Recensione di Enrico Spinelli
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