Abbiamo intervistato Giuliano Pasini, partendo dal suo ultimo romanzo “L’estate dei morti” e approfondendone vari aspetti e tematiche

Abbiamo intervistato Giuliano Pasini, partendo dal suo ultimo romanzo “L’estate dei morti” e approfondendone vari aspetti e tematiche

 

Intervista n. 244

 

Giuliano Pasini

 

 

1. Le chiederei prima di tutto di presentarci il suo ultimo romanzo, “L’estate dei morti“.

“L’estate dei morti” è un romanzo che nasce da una domanda che mi porto dietro da tempo: quanto pesa il passato su ciò che siamo? Qui il passato è quello personale, e tragico, delle persone e quello che nutre la memoria collettiva di un luogo isolato come il paesello di Case Rosse. In questo secondo caso, è un passato fatto di leggende e tradizioni che hanno scandito la vita dei luoghi e della gente per secoli, fatti creature magiche cattive e buone, di riti di passaggio, di momenti collettivi. Si tratta sempre, come negli altri miei romanzi, di un passato che non si dimentica e che, quando riaffiora, porta con sé una scia di dolore e violenza. Più che un giallo – perché non ho mai pensato ai miei libri solo in questi termini – è un viaggio nei traumi di un uomo e di una comunità, che gioca coi toni del gotico e delle fiabe (quelli dei fratelli Grimm, però).  Ho voluto raccontare il periodo in cui l’Appennino è più bello, a cavallo tra fine ottobre e inizio novembre, “l’estate di San Martino” o “l’estate indiana” oltreoceano. Giornate limpide a illuminare boschi che sembrano un quadro fiammingo. Ma è anche il periodo dell’anno in cui si celebrano i defunti nella tradizione cristiana o l’All Hallow’s Eve in quella celtica. Un periodo comunque intriso di magia e di sovrannaturalità. Un periodo in cui sembra persino normale che a segnalare il ritrovamento di due cadaveri in un casale abbandonato sia una ragazza morta più vent’anni prima…

 

 

2. Come descriverebbe il personaggio di Roberto Serra, protagonista dei suoi romanzi?

Roberto Serra nasce a tavolino verso il 2007, quando ho iniziato ad affrontare il mio primo romanzo, che poi è diventato “Venti corpi nella neve”. Mi ero stancato dei gialli di ispirazione “scientifica”, con trame disegnate attorno a impronte digitali o granelli di sabbia. Ho creato un personaggio forte (Roberto, da vis-roburis in latino, forza) e chiuso (Serra), e l’ho voluto dotato di una straordinaria empatia verso le vittime. Un’empatia spaventosa, sotto un certo punto di vista, che trasmette anche le sofferenze che sono state provate. A volte mi viene chiesto cosa ci sia di me in Roberto… Be’, tenendo conto che è asociale, per non dire tendenzialmente sociopatico, ha perso i genitori in una tragedia il giorno del suo sedicesimo compleanno, prova un amore assoluto per una donna con cui non riesce a tenere in piedi un rapporto, è afflitto da un male oscuro che non ha diagnosi né terapia certe… quindi, direi: no, Roberto Serra non sono io. Condividiamo qualche passione, che lui affronta in modo molto più radicale e assoluto. Forse solo il modo di cucinare, senza assaggiare e seguendo l’ispirazione, ci accomuna. E anche la tremenda testardaggine nel voler cercare sempre e comunque la verità che abbiamo. Ma è tutto. Gli voglio bene comunque, e gli devo tanto.

 

3. Serra fa il suo esordio nel 2011, quanto e come è maturato nel corso degli anni e quali cambiamenti personali e/o professionali ha attraversato?

Roberto, nel corso degli anni, ha affrontato numerose sfide personali e professionali. Dalla sua prima apparizione, è invecchiato di più di dieci anni, è diventato padre, non è riuscito a conservare la relazione con la madre di sua figlia (che si sta sposando, e non con lui), ha cambiato casa molte volte, passando dall’Appennino alle colline del Prosecco, alla Bassa emiliana, a Bologna e di nuovo all’Appennino. Ha spesso sacrificato le cose più importanti della sua vita, gli affetti più cari, per aiutare persone sconosciute (le vittime degli omicidi su cui indaga), cercando di trovare un equilibrio tra il suo ruolo e la sua persona. Dilemma irrisolvibile, visto che ruolo e persona coincidono, in lui. Ogni indagine lo ha costretto a guardarsi dentro, portandolo a una maturazione che riflette le sue esperienze e le sue sofferenze. Non ha memoria, o, meglio, dalla sua memoria sono spariti tutti i ricordi dell’infanzia antecedenti all’assassinio dei suoi genitori, avvenuto il giorno del suo sedicesimo compleanno. E ho sempre pensato che l’indagine sull’omicidio dei genitori sarà l’ultima con lui protagonista, perché sarà la sua catarsi e la sua liberazione. A poco a poco, romanzo dopo romanzo, ci avviciniamo.

 

 

4. Ne “L’estate dei morti” troviamo per la seconda volta Rubina Tonelli, quali aggettivi userebbe per caratterizzarla?

George R. R. Martin dice che gli autori sono giardinieri o architetti. Io credo che chi scrive gialli debba per forza essere architetto, e debba progettare l’intera casa prima di piantare un solo chiodo. Anche perché il lettore del genere cecchinano uno scricchiolio di trama (a volte anche solo presunto) da distanze siderali. Io mi considero, perciò, un architetto. Rubina è però l’eccezione che conferma la regola perché, con lei, ha prevalso il lato “giardiniere”. A me serviva per giocare su vari dualismi, quello tra Emilia e Romagna, quello tra Riviera e Appennino, quello tra la ventenne e il quasi cinquantenne… Scrivendo “E’ così che si muore”, però, Rubina mi è sfuggita di mano. Man mano che scrivevo, lei diventava più centrale per la storia. L’accoglienza dei lettori ha fatto il resto, e per l’economia della trama de “L’estate dei morti” era fondamentale che fosse lei a prendere la misteriosa telefonata di Sibilla, la ragazza apparentemente morta vent’anni prima. Perchè Rubina, tutta cuore, si fa carico della sua tragica vicenda, mentre Serra, razionalmente, cerca invece chi ha ammazzato i due uomini nel casale. Rubina e Roberto sono uno l’opposto dell’altra: lui forte che sembra debole, lei debole che sembra forte. Forse, come per lo yin e lo yang, esiste un incastro tra loro, ma è uno e uno solo, e ancora non l’hanno trovato…

 

5. Quali sono le sue principali fonti di ispirazione e quanto c’è della tradizione della sua terra in ciò che scrive?

La mia terra, l’Appennino Emiliano, è una fonte inesauribile di ispirazione. Le sue storie, le sue leggende e la sua gente influenzano profondamente la mia scrittura. Cerco di trasmettere l’essenza di questi luoghi, intrecciando la tradizione con le trame dei miei romanzi. Scrivere è una sinestesia, l’autore ha a disposizione solo un senso del lettore, la vista, e deve restituirgli tutti gli altri. Per questo cerco di mettere nella mia storia i profumi, i sapori inimitabili (perché in Emilia “il mangiare” è una cosa seria, e le faccende importanti si discutono con le gambe sotto la tavola), i rumori e il silenzio… Mentre scrivo, tornare con la mente in quei luoghi che tanto amo è un balsamo per l’anima. Durante le ansie durante la pandemia è stato addirittura salvifico…

 

6. Ne “Il fiume ti porta via” del 2015 ci sono dei riferimenti a due autori a me molto cari come Giovannino Guareschi e Mario Tobino. Qual è secondo lei il valore culturale di questi due intellettuali e cosa andrebbe approfondito del loro lavoro?

Romanzo per ora introvabile, ma che mi auguro torni presto in libreria (ne esiste una meravigliosa versione in audiolibro su Audible, letta da Marco Cavalcoli).  Guareschi e Tobino sono pilastri della letteratura italiana. Guareschi, con il suo “Mondo piccolo”, ha saputo raccontare l’Italia della Bassa con ironia e profondità, offrendo uno spaccato più autentico della realtà di quella fettaccia di terra grassa e arsa tra il fiume e il monte. Usando con maestria tutti i registri, dall’invettiva alla prosa “alta” e poetica. Tobino, invece, ha esplorato le sfumature dell’animo umano, attraverso le sue esperienze nel mondo della psichiatria, regalando opere di grande intensità. Entrambi meritano una riscoperta, soprattutto per la loro capacità di narrare storie universali radicate nella nostra cultura.

 

 

7. Sempre più spesso il confronto e la condivisione avvengono attraverso i Social, qual è il suo rapporto con questa realtà?

Mi affascinano. Ho l’atteggiamento dell’esploratore titubante. I social media sono strumenti potenti che permettono un contatto diretto con i lettori. Li utilizzo per condividere aggiornamenti, riflessioni e per interagire con chi segue il mio lavoro. Tuttavia, credo sia importante mantenere un equilibrio, utilizzandoli con consapevolezza e senza perdere di vista la centralità della comunicazione personale. Dal vivo. Davanti a un buon bicchiere. Dividendo crescentine, gnocco fritto e salumi.

 

8. Le faccio un’ultima domanda, ringraziandola per la disponibilità. Il giallo italiano gode come non mai di ottima salute grazie a una serie di autori storici e nuovi, c’è qualcuno di questi con cui le piacerebbe un giorno lavorare o condividere i suoi personaggi?

Sarei estremamente curioso di conoscere i percorsi narrativi e, soprattutto, il modo di lavorare di autori che amo. Ma se devo fare un nome, devo per forza fare quello di Loriano Macchiavelli, il maestro di tutti noi che proviamo a fare questo gioco serio della scrittura. Roberto Serra assieme a Sarti Antonio, be’… il solo pensiero mi fa stare bene. Cucinerebbe Serra, ma il caffè sarebbe responsabilità di Sarti!

 

Intervista di Enrico Spinelli

 

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