Abbiamo intervistato il giornalista e scrittore Alessandro Robecchi, autore di una serie di romanzi, il cosiddetto “Ciclo Monterossi” che tra noir e satira raffura gli aspetti più controversi e le contraddizioni della periferia di Milano… e della nostra società
– Volevo chiederle in apertura, parlando del suo personaggio Carlo Monterossi quali parole userebbe per presentarlo e come le è venuta l’ispirazione per un soggetto cosi peculiare?
Carlo è un borghese benestante non pacificato, con un forte senso della giustizia, contiene del blues, nel senso che si trova ad essere invidiato, ammirato, molto ben pagato per qualcosa che detesta e da cui non riesce a staccarsi. La cosa è più complessa, ovviamente, diciamo che è un vincente che fa il tifo per i perdenti. È nato perché il noir contiene cose enormi, il Bene, il Male, violenza, delitto, colpa, e io volevo che con queste cose enormi si confrontasse uno di noi, non un professionista, uno che può avere paura, sbagliare, farsi guidare dal suo senso etico. Carlo non deve punire nessuno, non deve mandare la gente in galera, ma tiene ben stretto, diciamo così, il dossier etico-morale delle storie che attraversa. Sa che non sempre quello che è giusto è legale e ciò che è sbagliato è illegale, la giustizia dei tribunali e la giustizia sono cose molto diverse, spesso. Quasi sempre.
– I suoi libri presentano elementi di vari generi letterari, dal noir alla satira passando per il romanzo di formazione (per citarne alcuni). Rifacendomi un po’ alle immagini evocate da Bob Dylan nelle sue canzoni e che ritroviamo nella Milano “extraturistica” in cui i suoi personaggi si trovano a muoversi possiamo definire la sua proposta come “cantautoriale”?
La Milano turistica è un’invenzione recente, fa parte di una narrazione artificiale della città, un po’ come quando si pensa a Milano solo come moda, design, soldi… vorrei una narrazione più onesta, meno ideologica, stiamo parlando di un posto con un milione e mezzo di persone di notte e tre milioni di giorno, dove non facciamo tutti il designer o la modella, non abitiamo nel bosco verticale. Due narrazioni hanno inquinato questa città: la retorica schifosa della “Milano da bere” e il cinepanettonismo per cui il milanese è “il pirla coi soldi”. Era molto più onesto il racconto dei ’50 e dei ’60, da Testoni al Bianciardi de “La vita agra”… ci metto pure Jannacci, Dario Fo, Scerbanenco, gente che sapeva raccontare le ombre, non solo il luccichìo dei vincenti. Per vedere una casa popolare milanese al cinema devi tornare a Romanzo popolare, Monicelli, 1974… Quanto a “cantautorale”, no, è una parola che non amo per niente, non definirei Dylan un cantautore, per esempio, credo che per parlare delle nostre vite, dei posti dove viviamo, del presente, serva una costruzione più complessa, più un’orchestra, un buon gruppo, un ensemble jazz, le mie storie non hanno un solista.
– “Crazy Love”, il programma di successo creato da Carlo Monterossi e poi in qualche modo sfuggito alle sue mani. Carlo cerca di tutti i modi di uscirne fuori senza mai riuscire ad abbandonarlo… lo vede più vicino a chi ha raggiunto il successo ma non riesce a smarcarsene (come in “Hotel California”) o a una sorta di moderno dottor Frankenstein che viene perseguitato dalla creatura che ha generato e rinnegato?
Se restiamo ai paragoni letterari mi sembra più Faust, che ha venduto l’anima, anche se in modo involontario. Volevo un non-cinico immerso in un ambiente cinico e amorale, e i meccanismi della tv commerciale, che conosco abbastanza, erano perfetti. Carlo odia quei meccanismi, ma non riesce a staccarsene, è il suo blues.
Leggendo a stretto giro di posta tutti i romanzi ho avuto la sensazione che, con l’evoluzione del personaggio Monterossi, ci fosse un cambiamento in parallelo della prosa: più schietta e spigolosa all’inizio, con un Carlo chiuso e riservato e poi sempre più narrativa e introspettiva avventura dopo avventura seguendo una sempre maggiore apertura del personaggio. Vorrei sapere se questo parallelismo tra narrazione e carattere di Monterossi sia stata una sua scelta precisa.
Il primo libro, Questa non è una canzone d’amore, a cui sono legatissimo, era un disco punk. Sono passati dieci anni da allora, probabile che io sia cambiato, anzi, sicuro, quindi possibile che sia cambiato anche Monterossi. Ma qui si legano varie cose: c’è sicuramente un aspetto tecnico, un rapporto più consapevole, più denso, con la scrittura. Ma anche cose più private: un testo deve avere il suo ritmo, i suoi allegretti e i suoi spazi larghi, deve far accadere quello che l’autore vuole dire, non basta spiegarlo. Citerò Marquez, per darmi un tono: “Il primo dovere rivoluzionario di uno scrittore è scrivere bene”. Leggo storie con buone trame e ottimi personaggi che potrebbero essere scritte meglio, questo mi irrita. Scrivere significa che tu pensi una cosa, e quando l’hai scritta è meglio di quando l’hai pensata. È una magia che non accade in ogni pagina, ma bisogna provarci, e infatti non è una magia, è un lavoro, una ricerca.
– Si parla spesso di “Romanzi del ciclo Monterossi” ma sembra che in realtà tutti i personaggi presenti siano a loro modo protagonisti, ognuno col suo “momento di gloria” (addirittura ne “I cerchi nell’acqua” troviamo principalmente Ghezzi e Carella) e tutti per altro in costante evoluzione. Possiamo parlare di romanzi corali? E quanto è difficile tenere le fila di soggetti così sfaccettati, articolati e diversi tra di loro?
È sempre la storia che comanda, e la storia deve rispondere per prima cosa a una domanda: cosa voglio dire? Torto marcio era un romanzo sull’impossibilità di fare giustizia, per esempio, Follia maggiore era un discorso sul rimpianto, che è un sentimento complicato… A seconda della storia scelgo i protagonisti, I cerchi nell’acqua era una storia di strada, di sbirri, di piccole schifezze, il Monterossi sarebbe stato un intruso. Quindi sì, “corale” è una buona definizione, ma… io sono un chandleriano di ferro, e Chandler dice: “L’investigatore è tutto”, ecco, perfetto, ma non deve necessariamente essere la stessa persona. Monterossi e la sua banda e gli sbirri Ghezzi e Carella vedono le stesse cose da diverse angolazioni, questo mi permette di raccontare la complessità delle vite degli altri.
– Una cosa che personalmente apprezzo molto sono i passaggi ironici, per altro mai forzati o costruiti ad arte ma sempre ben inseriti nel contesto (penso ad esempio a Katrina e ai suoi dialoghi con la Madonna di Medjugore ma anche ai duetti tra Ghezzi e Sannucci); la naturalezza con cui li troviamo fa pensare a una satire nei confronti di certi cliché comportamentali del nostro paese, condivide?
La satira è un linguaggio, non bisogna usarla come trucco, o abbellimento. Credo che in fondo sia uno strumento per vedere l’assurdo che è diventato normale, che rischiamo addirittura di non vedere più. L’ironia, persino il sarcasmo, possono aiutare.
– La TV commerciale con programmi poveri di spessore o di contenuti ha preso negli anni sempre più potere, premiata spesso da ascolti elevati a discapito di altri format ben più meritori. Come si spiega questa deriva della nostra società?
In tivù si usa “largo” per dire che è accessibile a chiunque, e i meccanismi economici della tivù premiano la quantità, non la qualità. Chiedete a qualunque direttore di rete se preferisce una schifezza per cinque milioni di persone o una cosa densa e intelligente per seicentomila. O sceglie la prima o mente. Ma la faccenda è più complessa, la pornografia dei sentimenti che tracima da certo trash televisivo sollecita il voyeurismo di molti, alcuni la guardano per raccapriccio e gusto dell’inverosimile, ma di base si tratta di un pubblico anziano e/o poco scolarizzato. Siamo l’unico paese al mondo in cui una madre ha saputo del ritrovamento del cadavere della figlia adolescente in diretta tv, l’unico in cui una conduttrice ha detto in diretta le preghiere per i morti di Covid insieme a un ministro… questa cosa non va bene, non è degna di un paese civile.
– I Social sono potenzialmente una bella realtà di condivisione ma sono anche pieni di persone che vivono la vita degli altri, spesso in modo feroce e apparentemente protetti dall’invisibilità. Qual è il suo rapporto con questa dimensione?
Non sono un apocalittico, non grido allo scandalo. Abbiamo sempre sognato che un tizio qualunque possa parlare con tutti, dire ciò che pensa, dare dello stronzo al potente. Ora questo è mediamente possibile. Naturalmente ogni totale libertà si accompagna a molti rischi, abusi, usi distorti, ovvio, bisogna imparare a maneggiare questi linguaggi e questi strumenti, ma non demonizzare la democratizzazione della circolazione delle idee. Certo, poi il rischio è di trovarsi di fronte gente convinta che la terra sia piatta, ma è un rischio che possiamo affrontare, e intanto vengono meno alcuni monopoli, per esempio la grande stampa o i media ufficiali, controllati ovunque da pochi potentati, sono in grande confusione, e capita di leggere cose più sensate su Twitter o Facebook che sui media ufficiali. La verità è che bisogna imparare a usare tutti gli strumenti.
– Confesso di condividere con Carlo Monterossi una grande passione per Bob Dylan. Come ultima domanda, e curiosità personale, mi piacerebbe sapere una sua opinione sulle recenti, e discusse, posizioni del cantautore sull’uso dei cellulari per le riprese durante i concerti? La ringrazio ancora per la sua disponibilità e gentilezza.
Ho visto due dei concerti dell’ultimo tour, concerti impegnativi, dove all’ascoltatore è richiesto un apporto di intelligenza e sensibilità. Stare due ore senza cellulare, per partecipare a un evento così intenso, mi sembra un sacrificio sopportabile. Ovviamente vale per Dylan, e forse non sarebbe valido per spettacoli più pop, o più social. Però trovo divertente che un premio Nobel, un poeta, un musicista eccelso, di cui parleremo ancora tra cent’anni, abbia fatto notizia perché ci ha chiuso il telefono in una bustina. Un po’ come andare a sentire un concerto di Mozart, a Salisburgo, a Corte, nel 1775, e concentrarsi sul colore delle tende.
Di Enrico Spinelli
LA BANDA MONTEROSSI – Alessandro Robecchi
UNA PICCOLA QUESTIONE DI CUORE – Alessandro Robecchi
QUESTA NON E’ UNA CANZONE D’AMORE
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