Abbiamo intervistato la scrittrice Roberta Lepri riguardo al suo ultimo romanzo “La gentile”.

Abbiamo intervistato la scrittrice Roberta Lepri riguardo al suo ultimo romanzo “La gentile”.

 

Intervista n. 225

 

Roberta Lepri

 

 

Per cominciare le chiederei di presentarci il suo romanzo “La Gentile

Si tratta di un romanzo fondato su studi e approfondimenti di materiale storico, che tratta tematiche capaci di attraversare il tempo perché ancora profondamente vicine al nostro sentire: il rapporto tra chi fa e chi riceve del bene, il lavoro femminile come forma di indipendenza e riscatto, la difficoltà ad affrancarsi da una famiglia anaffettiva e crudele.

Qual è stata l’ispirazione che l’ha portata a scrivere questa storia?

Conosco da sempre la storia dei Franchetti, perché molte delle vicende che li riguardano sono avvenute a Città di Castello, dove sono nata. Il culto di cui erano oggetto quando ero piccola – ed erano trascorsi già sessant’ anni dalla loro morte – mi ha sempre incuriosita. I ritratti dei baroni erano praticamente in ogni casa, specie nelle campagne. Se ne parlava con forza e rispetto, quasi fossero ancora vivi. “Hanno fatto tanto bene”, sussurrava mia nonna. Ed è vero, Alice Hallgarten e Leopoldo Franchetti furono filantropi illuminati con una fede incrollabile nel lavoro e nell’istruzione, e cambiarono per sempre il tessuto sociale dei luoghi che abitarono. La domanda interessante da porsi, a livello umano e letterario, è se possa esistere il bene perfetto e senza condizioni. Naturalmente no, qualsiasi sforzo nel fare il bene ha delle crepe, degli inciampi, dei fraintendimenti. Deve vedersela con delle relazioni umane difficili e a volte penose. E io ho voluto raccontarlo affiancando ad Alice un personaggio di invenzione, che fosse come lei forte, ma fatta al rovescio: Ester è brutta, povera e ignorante laddove Alice è bella, ricca oltre ogni immaginazione e coltissima. Ester, di rimando, mette al mondo un figlio dopo l’altro. Alice, invece, non può averne. Oltretutto, le manca l’unica cosa che non può comprare, la salute, mentre Ester passa indenne attraverso due guerre mondiali, intervallate da un’epidemia di spagnola (“Forte come una sbarra di ferro”, dirà di se stessa). Due mondi che arrivano a scontrarsi, nel momento in cui il sogno di una non collima in modo esatto con il progetto di vita dell’altra. Ed ecco che Ester, la gentile, diviene capace di cambiare in rancore l’affetto provato per la propria benefattrice: la gentile vuole un sogno ma solo se può averlo per intero. Ho immaginato due donne forti, una che tenta di fare del bene ma non lo porta fino in fondo, e l’altra incapace di apprezzare quella parte di bene che le viene elargito. Volevo metterle a confronto, e che crescessero, insieme e ognuna per proprio conto, fino a una grande comune consapevolezza: gli errori e le mancanze di una sono anche quelle dell’altra.

 

 

Come definirebbe con poche parole personaggi quali Alice, Leopoldo e Ester?

Alice è un’ipercinetica in corsa contro il tempo, cioè contro la morte. Viaggia, sogna, realizza ardite opere filantropiche. È una privilegiata che si rende conto della propria fortuna. Sempre ispirata da qualcosa, capace di amare in modo entusiasta ma indistinto. È una fiamma che brilla e si consuma in velocità. Leopoldo è un uomo del suo tempo, con un profondo interesse per la terra a cui è legatissimo, ambizioso, attento, curioso. Profondamente conservatore ma rivoluzionario suo malgrado, dal momento che acconsente a fare da sponsor alla scuola di Montesca e al metodo Montessori, e perciò in qualche modo contribuisce a cambiare il vecchio mondo a cui appartiene. Ester è la gentile, un’ebrea convertita che lotta contro una realtà ostile. Quella della povertà, della fatica, delle delusioni. Una donna che aspira ad alzare la testa, ad affrancarsi. E che non trova mai sosta né consolazione: non in forme di affetto famigliare e neanche in un progresso personale.

Alice e una donna con grande forza e di grande modernità che ci fa riflettere sul problema ahimè ancora attuale dell’emancipazione femminile. Quanti passi in avanti si sono fatti e quanto c’è ancora da lavorare in questo ambito?

Molto è cambiato e tanto è ancora da fare. Certo non è paragonabile la situazione delle donne del nostro tempo (in Europa perché a poche ore di aereo da qui le cose sono ben diverse) con quelle di cento anni fa ma spesso una maggiore possibilità di uguaglianza ha fatto crescere ai nostri giorni nella parte maschile una rabbia repressa capace di sfociare in mania di controllo, persecuzione e violenza fisica. La parte femminile della nostra società è stata impiegata per millenni nel lavoro di cura e relegata nell’ambito della famiglia, sotto il comando del pater. Una persona indipendente economicamente però non si può dominare né costringere in un ruolo che non vuole. Perciò istruzione e lavoro per noi donne sono così importanti. E questo Alice Hallgarten lo sapeva perfettamente.

Trovo che nelle sue opere gli eventi vengano narrati con parole semplici e senza descrizioni prolisse, eppure ogni passaggio appare ben delineato e viene voglia di soffermarcisi per coglierne i dettagli e le sfumature, merito di una prosa diretta che sa essere coinvolgente, avvincente e al contempo riflessiva, condivide?

Infatti la mia scrittura non ama barocchismi e florilegi. La semplicità e l’efficacia secondo me vanno a braccetto. E dal momento che quella qui sopra suona come una sfilza di complimenti, bando a ogni timidezza: non posso che condividere.

 

 

Un elemento fondamentale in questo e in altri suoi romanzi, penso ad esempio a “Dna chef” è la presenza di una forte componente Storica, spesso legata a fatti non del tutto noti ai più. Quale può essere a suo avviso il contributo della narrativa nel diffondere la conoscenza di pagine più oscure del nostro passato?

Narrare il passato serve a ricordarci che siamo sempre gli stessi. Continuiamo a odiare e amare nello stesso modo e con uguale intensità. Desideriamo un futuro migliore, sogniamo che le condizioni di vita dei nostri figli siano luminose, eppure finiamo in mezzo a guerre che abbiamo lasciato arrivare senza muovere un dito o quasi. Siamo poveri esseri smemorati, dimentichiamo tutto, soprattutto il dolore. Perciò abbiamo bisogno di una narrativa che attraverso la curiosità e l’emozione ci faccia riflettere. Ed è una necessità continua, proprio perché incessante è l’oblio.

Un’altra cosa che ritorna è la “ricerca del proprio passato” per (ri)costruire l’identità del protagonista, cosa ben presente in “Dna chef” e in “Hai presente Liam Neeson?”. Quale valore dà alla memoria e alla ricerca del proprio vissuto nella costruzione del proprio futuro?

La memoria va esercitata. La demenza, intesa come decadimento cognitivo, come narra in maniera meravigliosa e terribile Gospodinov in Cronorifugio, accade anche ai popoli, non solo alle singole persone. La letteratura è di sicuro una delle cure per arginarla. Del resto il futuro è sempre una costruzione sulle rovine del passato. Per edificare qualcosa di buono e nuovo credo sia davvero importante conoscere di che materiale sono fatte queste macerie.

La comunicazione è la condivisione passano sempre più attraverso i Social, qual è il suo rapporto con questa realtà?

Sono su Instagram, Facebook, Linkedin, X, Threads e perfino su Tik Tok. Ho su Jimdo un sito che gestisco da sola e aggiorno spesso con foto e recensioni. Sono curiosa ma detesto le polemiche, le prese di posizione estreme e certi atteggiamenti da bulli, per cui alla fine i social mi sono utili per la condivisione di notizie legate ai libri. Se interagisco, lo faccio soprattutto con le persone che conosco anche nella vita quotidiana. E ovviamente amo giocare, ormai da anni, a un solo gioco che è fatto di parole: Ruzzle.

Come ultima domanda, tornando a “Dna chef“, riguarda un passaggio che mi rimase impresso legato al lockdown, quando Guido parlando con Franco dice “Questo è il momento di tenere le palle salde e la brigata unita, tanto siamo tutti sulla stessa barca.” A quasi 5 anni da quel periodo così buio quanto crede che siamo stati e/o siamo uniti?

Torniamo a quello che ho detto sopra. È notevole come siano pochissimi i libri che parlano di quel periodo. Una smemoratezza collettiva, una rimozione di massa. Quasi nessuno ne scrive, nessuno vuole sentirselo ricordare. Chi erano quelli che preparavano il pane fatto in casa e sventolavano bandiere sul balcone cantando inni d’amore al prossimo? E le autocertificazioni per viaggiare? Le mascherine? Davvero eravamo noi? Come abbiamo potuto sopportare una cosa del genere? È vero, siamo stati uniti. Moltissimo. Ma ce lo siamo dimenticato.

Intervista di Enrico Spinelli

 

LA GENTILE Roberta Lepri

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