Abbiamo intervistato lo scrittore Antonio Fusco, che ha condiviso con noi gli aspetti principali dei suoi personaggi e alcuni interessanti approfondimenti su temi narrativi e sociali.
-Per cominciare mi piacerebbe chiederle di presentarci i protagonisti delle sue opere, il Commissario Tommaso Casabona e l’Ispettore Massimo Valeri.
Sono due investigatori molto diversi tra loro ma speculari. Casabona è un uomo maturo, con un profondo senso etico, serio e riflessivo, sempre attento a cogliere l’essenza delle cose, fedele a un sistema di valori sui quali non transige. Le sue indagini sono ambientate nella classica provincia italiana che ben si addice alla sua personalità. L’ispettore Massimo Valeri è uno scapestrato che fa i conti con una rabbia irrisolta dovuta alla sua storia personale, un quarantenne solitario, insofferente alle gerarchie. Ama le moto, le barche e la musica rock. Si muove in una metropoli come Roma e scava dentro il disagio delle periferie e degli emarginati trovandoci una propria dimensione personale.
-Cosa spinge un autore, dopo una serie cospicua di pubblicazioni, a creare un nuovo personaggio? Quali sono i rischi e quali aspettative?
Le storie. Per me comandano sempre le storie. I personaggi che le interpretano vengono dopo. Avevo da raccontare storie che non si addicevano a Casabona, per questo ho creato l’Indiano. La storia di Zula e Jemal non era nelle corde di Casabona. Per una storia di emarginazione, disagio, sofferenza, mi serviva un personaggio come l’ispettore Massimo Valeri e un’ambientazione come quella del XVII distretto di polizia di Roma. Il rischio, quando si abbandona un personaggio al quale si sono affezionati molti lettori, è quello di sentirsi dire: “Casabona mi piaceva di più”. È capitato anche ai grandi. Pensiamo a Simenon quando scriveva romanzi diversi da Maigret o Camilleri con Montalbano. Ma uno scrittore non può farsi condizionare. Deve scrivere le cose che si sente di scrivere, non pensando ai rischi e senza aspettarsi nulla. L’unica cosa che deve fare è cercare di portare a termine un buon lavoro.
-Una cosa che chiedo spesso agli scrittori di gialli è se è più importante la difficile individuazione del colpevole o l’impianto narrativo in toto, ragionamenti compresi, anche a discapito di una soluzione meno brillante.
Non credo che esista una risposta univoca per questa domanda. Per me è più importante l’originalità della trama e la coerenza della soluzione rispetto allo sviluppo dell’investigazione. Altri danno più importanza alla prosa e all’impianto narrativo. Ci sono autori di grande successo che scrivono storie banali ma lo fanno con tale maestria da incantare i lettori. Le vie del signore delle parole sono infinite.
-Ricordo che nel 2021 entrai in una libreria e chiesi dei libri per approfondire i terribili fatti del G8 di Genova e tra i due testi che mi furono consigliati, e che comprai, c’era il suo- ottimo- “Quando volevamo fermare il mondo“, che effettivamente ritengo abbia il grande merito di portare il lettore direttamente in quella dimensione nefasta senza la “pesantezza” di un saggio o la freddezza giornalistica. Quali sono state le difficoltà nell’approcciarsi a un fatto di cronaca così devastante e purtroppo ancora oggi molto divisivo?
Ci ho messo 20 anni per trovare il coraggio di scrivere quel libro. Non perché, come tutti pensano, avevo paura della reazione del mio ambiente lavorativo. Ciò che mi ha frenato è stato il fatto che si tratta di una storia al 90% autobiografica e la storia di Pietro (così si chiama il personaggio nel libro) è stata realmente vissuta da un mio carissimo amico d’infanzia. Io ero lì, come l’ispettore Valeri, e c’era anche lui. Le cose che racconto sono avvenute davvero, proprio come le ho ricordate io. Per scriverle avevo bisogno che la mia rabbia e il suo dolore si raffreddassero. Perciò ci è voluto tutto questo tempo. È la prima volta che lo dico in un’intervista. E pensare che ho letto recensioni che criticavano il mio romanzo perché la storia dell’amicizia tra Massimo e Pietro era ritenuta poco credibile.
-Crede che la narrativa possa avere un ruolo di primo piano nella divulgazione di fatti storici o di cronaca pur in una dimensione romanzata?
Assolutamente. Il romanzo, quando è scritto bene, facilita la comprensione dei fatti e li riporta a una dimensione umana.
-Lei ha scritto che “Quando volevamo fermare il mondo” non ha incontrato più di tanto il favore dei lettori e della Casa Editrice. Quanto è difficile per uno scrittore bilanciarsi tra la propria dignità artistica e le esigenze del sistema che ruota attorno all’editoria e dei lettori?
Non è semplice. Bisogna tener conto anche delle aspettative dei lettori e delle esigenze di carattere commerciale degli editori. Ma, ogni tanto, ci si deve concedere il lusso di seguire il proprio istinto e la propria coscienza. Io non me ne sono pentito. Anzi, sono molto fiero di aver scritto quel libro. È un libro che resta e che mi sopravvivrà.
-Una domanda sui Social Network, per lei sono un’occasione di incontro e di confronto virtuale o una dimensione anarchica dove ci si sente protetti dallo schermo e in diritto di dire quel che ci pare senza timore di risultare offensivi?
Ormai, i social network sono entrati a far parte della nostra vita. Ci appartengono come noi apparteniamo a loro. È un universo parallelo dove possiamo trovare di tutto, sta a noi discernere e sapersi destreggiare per evitare o aggirare le insidie che li popolano. Gli strumenti ci sono: rifiutare le amicizie, bloccare, bannare, cancellare e denunciare quando si superano i limiti della decenza.
-Le chiedo infine quali sono i suoi prossimi progetti letterari, se ha già qualcosa in cantiere e cosa dobbiamo aspettarci.
Sto per concludere una nuova indagine dell’ispettore Massimo Valeri. Dovrebbe uscire a giugno prossimo per la collana Nero Rizzoli. Sarà una storia avvincente, ispirata a fatti realmente accaduti. L’Indiano indagherà sulla scomparsa di una ragazza di 17 anni e si troverà a muoversi in mondo di sette, riti satanici e logge massoniche segrete … ma non posso dire di più.
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