Abbiamo intervistato Nicola Lecca e parlato del suo ultimo romanzo Scrittori al veleno
Per cominciare ci parli del suo nuovo romanzo, “Scrittori al veleno”. Potremmo definirlo una sorta di “giallo pirandelliano”?
Se a lei piace perché no?
Trovo il personaggio di Antonina particolarmente riuscito nel suo essere una donna enigmatica, spigolosa e di carattere. La sensazione , al termine della lettura, e di non riuscire a coglierne tutte le sfumature quasi come lei stessa non volesse farle trasparire, concorda con questa impressione?
È una donna autentica, in un mondo dominato dalla falsità.
Nel corso dell’intervista/interrogatorio emergono alcune scomode verità sugli scrittori/vittime dietro i quali si celano spesso dei ghost writer. Viene in mente il romanzo “Sarà assente l’autore” di Giampaolo Simi dove, in modo quasi surreale, si racconta il dramma dell’editoria moderna, spesso vuota e di facciata, cosa ne pensa a riguardo?
Spero che “Scrittori al veleno” diventi per tutti noi, gente del libro, il pretesto per guardarci allo specchio e per capire se l’abisso di sciatteria verso il quale sembriamo diretti è veramente la destinazione che vogliamo raggiungere.
Riuscire ad affrontare un tema tanto incandescente divertendo lettrici e lettori (e tenendoli con il fiato sospeso fino all’ultima pagina!) è la sfida che spero di aver vinto.
Molto suggestiva l’ambientazione nelle Cinque Terre, che vengono descritte in modo magistrale. A cosa è dovuta la scelta di questa località?
Istinto, ispirazione. Me ne sono innamorato a prima vista. Manarola, in particolare, sembra in bilico tra fiaba e realtà. I suoi verticalismi da capogiro, e le sue scogliere a strapiombo sul mare sono uno dei pochi scenari che possono davvero competere con la mia Sardegna per incanto e bellezza.
Lei ha viaggiato molto e nei suoi romanzi emergono bene le descrizione delle ambientazioni. Quanto è importante tale accuratezza per catturare l’attenzione del lettore?
Fondamentale. La mia è, da sempre, una scrittura ipnotica.
Ricordo ancora il libro con cui l’ho conosciuta, “Il treno di cristallo”, un bellissimo romanzo di formazione dove spiccava, oltre all’ottima trama, una ricerca precisa e attenta delle parole, tanto che non c’era una frase fuori posto né una parola di più o di troppo, cosa che si ritrova anche in quest’ultima opera. Ripensando alla domanda che in “Scrittori al veleno”, la Coleman fa ad Antonina “perché non accontentarsi di una parola che vada bene e invece andare ostinatamente alla ricerca di quella giusta?”
Perché sono un artigiano della parola e lavoro con infinita pazienza alle mie frasi perché siano evocative e potenti.
Gran parte di questo romanzo si svolge come una sorta di interrogatorio solo che non avviene in una stazione di polizia ma in una trasmissione televisiva. Viene da immaginare con una certa amarezza che ormai i processi si celebrino più mediaticamente che nelle aule di giustizia, non trova?
Non saprei dirle non guardo la televisione.
La giornalista Coleman definisce i social “la più alta forma di democrazia in millenni di esistenza umana”, ricevendo per risposta la celebre risposta di Umberto Eco che tutti conosciamo. Qual è il suo rapporto con la dimensione Social?
I social network non vanno demonizzati: sono uno strumento potenzialmente utile, ma possono diventare deleteri in base all’uso che se ne fa.
Antonina Pistuddi, la scrittrice sarda protagonista di “Scrittori al veleno”, sostiene che i social network trasformino la mente in un pacco di coriandoli: non soltanto perché frazionano la nostra attenzione – dividendola fra la tsunamica abbondanza degli infiniti contenuti disponibili – ma, soprattutto, perché decuplicano il numero di persone con le quali imbastiamo rapporti, rendendo sempre più difficile coltivare relazioni profonde.
Per concludere una frase che mi ha molto colpito nei ringraziamenti, dove lei cita “i librai che svolgono il loro lavoro”. Quanto è sottovalutata questa categoria professionale e quanto ne hanno bisogno scrittori e lettori.
Ci vorrebbero venti pagine per rispondere a questa domanda.
Intervista di Enrico Spinelli
Commenta per primo