Abbiamo intervistato Paolo Malaguti e approfondito le sue opere partendo dal nuovo romanzo “Fiumana”

Abbiamo intervistato Paolo Malaguti e approfondito le sue opere partendo dal nuovo romanzo “Fiumana”

 

Intervista n. 238

 

 

Paolo Malaguti

 

 

Pochi mesi fa è uscito il suo nuovo romanzo “Fumana“, con quali parole lo presenterebbe?

Si tratta di un romanzo con una protagonista femminile, la prima con la quale mi confronto nel mio percorso di scrittura, che pratica l’arte della “segnatura”, è cioè una “strigozza”, una donna che cura determinati mali (il fuoco di Sant’Antonio, la sciatica, le verruche, ma anche “l’anima caduta”) tracciando dei segni sul corpo del malato, e sussurrando delle parole misteriose. Nel romanzo seguo tutta la vita della protagonista, che sarà caratterizzata anche dai pregiudizi e dalle violenze che spesso la società riservava a queste figure marginali (eppure importantissime) di donne curatrici.

 

 

La protagonista si chiama Fumana, ovvero nebbia, e come il fenomeno atmosferico dà l’idea di una creatura considerata inconsistente ma che cerca e rivendica la propria identità, condivide?

In alcune parti del basso Polesine nebbia si dice appunto “fumana”, e mi piaceva creare un parallelo tra la protagonista, che fin da piccola ama perdersi nei nebbioni che spesso d’inverno calano in quelle zone, e la nebbia stessa, che c’è ma non si lascia afferrare, che leva la vista e ti obbliga ad usare altri sensi, o a fare di più i conti con te stesso. Fumana è senz’altro una donna forte, l’ho molto invidiata mentre portavo avanti il romanzo per questa sua forza, perché riesce appunto a opporsi in tante maniere (e con esiti differenti) a quanti nel corso della sua vita cercheranno di levarle dignità, dal dottore che arriva in paese al regime fascista con cui la protagonista avrà a che fare nella parte finale del racconto.

 

A quali ispirazioni ha fatto riferimento nella realizzazione di quest’opera?

Credo di potere individuare tre livelli di fonti a cui ho fatto riferimento. In primo luogo le fonti relative alle figure delle segnatrici, o strigozze appunto. Si tratta di saggi di antropologia, di storia della medicina o di storia delle tradizioni popolari. Tra tutti segnalo, per ricchezza e bellezza, i lavori di Marisa Milani sul tema. Poi ho delle fonti di ispirazione “trasversali” a tutti i miei romanzi o quasi. Si tratta di quegli autori (Meneghello e Rigoni Stern in primis) che più mi hanno formato come lettore, e ai quali più direttamente cerco di rifarmi quando scrivo.

 

 

 

Un anno fa usciva “Piero fa la Merica” che racconta una pagina dimenticata della migrazione italiana. Quanto è importante a livello narrativo divulgare anche le parti meno note o meno considerate della nostra Storia?

Sono convinto che certe pagine vadano raccontate proprio perché meno note o, peggio, meno considerate. È interessante notare come la storiografia faccia i suoi passi, i suoi studi, apra tante porte… Ma poi la percezione generale (direi “popolare”) di certi fatti storici rimanga per così dire incapsulata in schemi narrativi e interpretativi magari vecchi di cinquanta o settant’anni… Penso in particolare alla Grande Guerra, che ho provato a raccontare in più di un romanzo. Non si può certo dire che la prima guerra mondiale sia un fatto storico dimenticato… eppure il modo in cui si ricorda e si racconta, in Italia, è spesso ancora inglobato in strutture ideologiche fasciste dalle quali fatichiamo ad affrancarci. Mi piace quindi molto provare a raccontare pagine di Storia che almeno in parte ridisegnano le nostre convinzioni, ci obbligano a mettere in discussione certi modelli interpretativi che davamo per scontati. Soprattutto, mi piace, attraverso il romanzo, sottolineare come la Storia stessa sia, in ultima analisi, una narrazione collettiva. E come ogni forma di narrazione, è evidente che la Storia venga fatta oggetto, in ogni comunità, di scelte, censure, ellissi, enfasi…

 

 

Guardando alla sua produzione letteraria quali sono gli elementi per lei fondamentali nella realizzazione di un’opera?

Credo che, ad oggi, nei progetti di narrativa che ho portato avanti l’aspetto più importante (o maggiormente caratterizzante a livello stilistico) sia la ricerca sul linguaggio. Sono convinto che le parole che usiamo per raccontare una storia costituiscano almeno il 51% degli ingredienti per la buona riuscita del lavoro. Spesso invece dedichiamo più tempo e più energie alla ricerca della trama, alla connotazione dei personaggi, o del contesto. Le parole, il linguaggio, la sintassi, invece, hanno una potenza enorme nella definizione del romanzo. Non sono semplici strumenti al servizio dei significati. La ricerca iniziale delle parole specifiche che userò in un romanzo (dialettali o gergali, legate allo spazio, al tempo, al livello sociale descritto nel racconto che costruirò) è a tutti gli effetti già narrazione. Infatti mi capita sempre che episodi importanti nella trama mi vengano incontro grazie alle parole che trovo, e che mi colpiscono con tale forza per la loro stranezza, per la loro diversità, che mi dico “questa parola devo usarla”, e allora costruisco un intero episodio, a volte un intero capitolo, attorno a una singola parola.

 

In che misura il romanzo storico può, secondo lei, affiancarsi alla dimensione storica in quanto tale ad esempio a livello didattico? Non crede che una maggiore presenza di opere di questo tipo potrebbero incentivare lo studio, la conoscenza e la curiosità verso la Storia?

Credo che si possa instaurare un circolo virtuoso tra Storia e Letteratura, anzi in alcuni casi mi è capitato di essere testimone di questo processo. Nel 2013 ho pubblicato un romanzo storico, “I mercanti di stampe proibite”, centrato sugli ambulanti girovaghi che nel Settecento vendevano stampe popolari in giro per l’intera Europa (ma fino alle Americhe). Nel 2022 ho conosciuto un giovane ricercatore che ha conseguito il dottorato sull’ambulantato tra Settecento e Ottocento, e che si era interessato a questa pagina perché, nei primi anni dell’università, gli avevano regalato il mio libro e si era appassionato a quella vicenda. Quindi il mio libro era nato grazie al lavoro di tante persone sulle cui ricerche avevo potuto studiare; ma poi quel libro stesso era stato fonte di ispirazione per nuove ricerche e nuovi approfondimenti.

Oltre a ciò, vedo come spesso “raccontare la storia” smuova più interesse nei giovani rispetto alla “spiegazione di storia”, specie se poi puoi portare gli studenti “sul posto” a osservare, a sporcarsi le mani con una certa pagina di storia. Qui però a mio avviso c’è un rischio da evidenziare. La narrazione storica può smuovere gli interessi, può suscitare emotività, ma non basta certo alla ricerca e alla conoscenza completa. La letteratura può essere un buon viatico, ma non sostituisce certo la storia: i romanzi hanno meccanismi e soprattutto funzioni differenti rispetto alla ricerca.

 

 

 

Personalmente ritengo che il suo esordio, “Sul Grappa dopo la vittoria” sia un grande romanzo sulla guerra per la capacità di mostrare gli aspetti più veri e reali pur essendo ambientato a guerra conclusa, che ne pensa?

Quel mio primo romanzo è stato senz’altro una bella sorpresa per me: all’inizio non pensavo nemmeno di provare a cercare un editore per pubblicarlo, non ero affatto convinto della sua bontà, eppure a distanza ormai di quindici anni ancora lo porto nelle scuole, e l’anno scorso è stato ripubblicato nei tascabili Einaudi… un bel traguardo che non mi aspettavo! Come scrivevo in precedenza, in quel romanzo ho provato a raccontare la Grande Guerra al di fuori della retorica e della logica di giustificazione (o addirittura di celebrazione) che spesso ancora troviamo sui monumenti o sulle lapidi commemorative. Da lì è nata l’idea di un protagonista totalmente sconnesso dal conflitto, un ragazzo che dopo la fine del conflitto torna al suo paese, ed è obbligato a conoscere la guerra andando a fare il recuperante, ossia salendo in montagna per cercare metallo e polvere da sparo da vendere in pianura per aiutare la famiglia in quel momento di crisi.

Credo che la forza del protagonista stia proprio nella sua giovane età: lui conosce la guerra ma intanto cresce, studia, si innamora. Trovo che la narrativa “di formazione” continui ad essere molto potente, i lettori si immedesimano bene, e anche le pagine più buie della Storia possono essere illuminate da una prospettiva di svolta, di progettualità e ripartenza che, immagino, dà speranza a chi legge.

 

È ormai un dato di fatto che la comunicazione al giorno d’oggi passi sempre più spesso attraverso i Social, qual è il suo rapporto con questa realtà?

Sono nato nel 1978, ho preso in mano il mio primo cellulare (un Motorola) a vent’anni, e ho mandato le mie prime e-mail all’università… Quindi il mondo dei social è per me una sovrastruttura, non ci sono nato dentro, ne percepisco l’artificiosità. In effetti avere una pagina Facebook e una pagina Instagram ti aiuta come autore, perché puoi comunicare le novità, puoi tenere aggiornati i tuoi lettori circa gli incontri e le presentazioni che farai… Insomma sono strumenti indubbiamente utili. Non credo invece che siano necessari.

Dipende (come tanto, o forse tutto, nella vita) da ciò che vuoi e che cerchi. Ripeto spesso questa cosa ai corsi di scrittura che tengo, perché per me è stata una conquista davvero importante: bisogna sempre tenere fermo e chiaro in mente il “primo perché” della propria scrittura. Se io scrivo (ma lo stesso discorso vale per la musica, o lo sport…) per avere fama, per fare i soldi, allora dovrò fare determinate scelte, e probabilmente arriverà il momento in cui dovrò scrivere qualcosa che non mi piace, nel quale non mi riconosco, ma che so che probabilmente incontrerà maggiormente i gusti o i tormentoni stagionali del mercato editoriale.

Se scrivo perché mi piace scrivere, allora la cosa più importante non sarà pubblicare, o vendere tanto, o vincere premi. Tutte quelle cose, se arriveranno, ti daranno piacere, ovvio, ma saranno comunque un “di più” rispetto al nucleo che nessuno ti potrà mai portare via, ossia il fatto che quando ti siedi al pc e provi a raccontare storie, stai bene. Per questa ragione mi trovo ad usare i social, ma confesso che ne farei a meno, e confesso anche che ammiro molto le autrici e gli autori (ad esempio i Wu Ming) che da anni portano avanti una scelta coraggiosa (e non indolore) di “auto-sottrazione” dai social, a ribadire che quello di Meta non è il migliore dei mondi possibili.

 

Come ultima domanda, ringraziandola per la sua disponibilità, le chiedo una curiosità. Nel 2019 lei ha pubblicato un romanzo che in apparenza sembra distaccarsi dal suo percorso, sto parlando di “L’ultimo carnevale”, cosa la spinge a sperimentare altre forme di narrazione? Pensa che ci saranno altre esperienze di questo tipo in futuro?

Eh sì, “L’ultimo carnevale” è stato un esperimento molto divertente. Ero in contatto con l’editrice Solferino, che stava in quel periodo facendo uno scouting molto dinamico per cercare autrici e autori da inserire in catalogo. Io venivo da due romanzi storici “puri” con Neri Pozza, e sinceramente mi piaceva l’idea di cambiare un po’ aria, andando a frequentare aree della narrativa che non avevo mai sperimentato. Gli amici di Solferino, quando ho presentato il progetto, si sono detti d’accordo, e così ho scritto quel romanzo, ambientato in una Venezia del futuro (siamo nel 2080), ridotta a parco turistico, allagata e spopolata.

Credo che sia importante, anzi salvifico, uscire dai percorsi e dagli stili che ci appartengono di più. Da un lato infatti sperimenti, studi nuove forme, cerchi di confrontarti con modelli che ti piacciono magari di meno, ma che sempre ti danno qualcosa di nuovo, e ti fanno imparare cose che non sapevi. Ma d’altra parte se fai questo, e se cioè ogni tanto disattendi le aspettative del pubblico, e lo sorprendi (o lo deludi, anche questo è inevitabile!) dimostri ai lettori, alle editrici e soprattutto a te stesso che non sei vincolato a una forma, a un genere o a uno stile, e che è bello di quando in quando rompere gli schemi e tentare vie nuove.

Per questo ogni tanto mi piace confrontarmi anche con la saggistica (che pure sento meno vicina rispetto alla narrativa); per questo nell’ambito del romanzo strico ho provato negli anni a cambiare epoche e contesti, andando dal 1453 de “La reliquia di Costantinopoli” agli anni Sessanta del boom con “Se l’acqua ride”; sempre per questa ragione mi sa che prima o poi mi confronterò con un romanzo ambientato nella contemporaneità, e forse anche con l’autofiction (che come genere non mi piace proprio!).

E per questo, infine, trovo che sia un po’ un peccato (e talvolta forse un pericolo) quando un autore si trova ingabbiato in cliché (di scrittura, ma talvolta anche di vita, addirittura di abbigliamento!) che gli vengono suggeriti o imposti dal successo di un suo romanzo… Lo vediamo spesso, ad esempio, con tanti bravissimi scrittori che diventano scrittori “di montagna”, o “di gialli” o “di scuola”, e lì restano, reiterando schemi e stilemi che confermano le aspettative del pubblico (magari con ottimi risultati di vendite), ma forse a lungo andare rischiano di deprimere la loro creatività, o di condurre a un’eccessiva adesione tra autore e opera (che invece credo debbano essere sempre ben distinti e indipendenti l’uno dall’altra). Ma come dicevo prima, credo che dipenda sempre dal “primo perché” della nostra scrittura, per cui l’importante è essere sereni e realizzati in quel che si fa.

Intervista di Enrico Spinelli

 

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