Abbiamo intervistato Roberta Recchia che ci ha parlato approfonditamente del suo romanzo d’esordio “Tutta la vita che resta

Abbiamo intervistato Roberta Recchia che ci ha parlato approfonditamente del suo romanzo d’esordio “Tutta la vita che resta

 

Intervista n. 210

 

Prima di tutto le chiederei di presentarci il suo romanzo “Tutta la vita che resta“. Quali sono stati gli spunti e gli elementi che l’hanno ispirata nello scrivere questa storia?

Tutta la vita che resta racconta quasi trent’anni di vita di una famiglia come tante, che vede l’esistenza spezzarsi a causa di un evento drammatico. Si parte dalla storia d’amore tra Marisa e Stelvio Ansaldo, dalla costruzione di una famiglia solida, poi la vita di prima, quella della quotidianità calda e rassicurante, finisce per sempre. Il mio romanzo è il racconto di come ci si ricostruisce, di come si trova un senso nuovo alla vita nonostante il dolore.

Anche se questo è il mio romanzo d’esordio, negli anni ho scritto tante storie che ho tenuto solo per me.  Non è mia abitudine partire da uno spunto, una tematica particolare, e “costruire” un romanzo. Di solito tutto parte dall’incontro con un personaggio che in qualche modo prende vita nella mia dimensione creativa. Se la storia che ha da raccontare mi conquista, colpisce la mia sensibilità, io mi metto in ascolto. È così che nascono i miei romanzi: in modo spontaneo. Nel caso di Tutta la vita che resta, mi sono letteralmente imbattuta nel personaggio di Miriam che mi ha conquistata con la sua innocenza, la delicatezza della sua indole. Ho intuito che portava con sé il racconto di una tragedia, sono entrata nel suo mondo dove ho trovato Marisa e Stelvio Ansaldo. Ho cominciato a raccontare e ha preso vita questo romanzo familiare dove c’è spazio per l’amore, il dolore, il crimine, il sorriso, la speranza.

Per essere un’opera prima è molto elaborata e ci presenta dei personaggi molto complessi, quanto è stato impegnativo mettere su carta tutto questo universo di caratteri, azioni e sensazioni?

Se un personaggio non mostra un suo spessore, una sua complessità, qualcosa che lo renda unico, difficilmente ne racconto le vicende. Se decido di farlo, mi viene naturale calarmi nella sua pelle, nella sua mente, e scrivere. Divento un po’ come una macchina da presa, raccolgo dentro di me fatti, sensazioni, emozioni e racconto. Di solito lo faccio senza incontrare grande difficoltà. Nella fase di scrittura, però, cerco sempre di trovare un buon grado di distacco, un equilibrio, per evitare che le emozioni sovraccarichino lo stile. Quando è necessario, mi prendo il giusto tempo per documentarmi, mettere a fuoco i dettagli, studiare in modo lucido le dinamiche di una scena.

 

Se c’è una cosa che mi ha colpito è che si fa fatica a dire a quale personaggio ci si è affezionati di più perché ciascuno di loro affronta una sorta di cammino di crescita. Possiamo cedere quest’opera come un romanzo di formazione corale dove tutti o quasi sono protagonisti?

Assolutamente sì. È, appunto, un romanzo corale dove la protagonista è la vita stessa. Nelle vicende che racconto ogni personaggio ha lo spazio che gli compete, è parte dell’ingranaggio e, nel bene o nel male, è determinante nello sviluppo delle vicende. Nessuno, nel tempo, è immune da cambiamenti. Persino Letizia, così granitica, alla fine porta certamente dentro di sé il segno dei suoi errori.

 

Roberta Recchia

 

 

Quasi tutti i personaggi vivono come se dovessero espiare una colpa che in realtà non hanno, mi hanno dato l’idea di angeli in attesa di essere riconosciuti come tali, condivide?

Nella mia storia ci sono angeli, ci sono demoni, ma c’è soprattutto gente comune che si ritrova ad affrontare una tragedia che cancella la vita per come era prima. Non ci sono colpe da espiare, solo un percorso doloroso da intraprendere per arrivare a una rinascita. Un viaggio nel buio per ritrovare la luce della speranza.

 

Una cosa che ho apprezzato molto di questo romanzo, al di là della vastità dei temi trattati e della caratterizzazione degli attori principali è il fatto che lo sviluppo non appare subito chiaro ma si dipana piano piano andando avanti con la lettura, lasciando il lettore incollato alla storia e sempre impreparato di fronte alle sorprese che si celano girando pagina. In questo senso sembra che anche lei più che narratrice sia quasi una compagna di viaggio che scopre insieme a noi gli eventi che accadono.

Come le dicevo, incontro i personaggi e lascio che si raccontino. Vivo la storia con loro e solo all’ultima riga scopro, così come il lettore, che la narrazione è conclusa. Quello per me è sempre un momento molto emozionante, è come congedarsi da una famiglia di cui hai fatto parte a lungo. La scrittura di un romanzo è un viaggio meraviglioso di cui ho il privilegio di fare parte. Io non faccio che mettere a disposizione la mia voce, quasi fossi una medium. Se ho un merito, è quello di saper trovare le parole giuste per raccontare.

 

 

A un certo punto della lettura compare la terribile espressione “se l’è cercata”, frase purtroppo di un’attualità disarmante. Quanto è cosa si può fare affinché scompaia dalle bocche e dal pensiero dei “benpensanti”?

Si può e si deve fare molto. Sono pregiudizi che vanno sradicati in modo deciso, abbattendo quelle convinzioni che spingono tante persone, ancora oggi, a credere che un atteggiamento, un comportamento giudicato inappropriato possa in qualche modo giustificare una violenza di genere. La violenza è un crimine sempre, non esistono limiti morali oltre i quali sia in qualche modo giustificabile. Fortunatamente si sta facendo molto nelle scuole, partire dai giovani è fondamentale. La cultura, la conoscenza, la presa di coscienza sono la sola arma contro il pregiudizio.

Stelvio e Marisa ci colpiscono per una modernità che sembra quasi fantasiosa ai giorni nostri. Possiamo vederli come un simbolo di speranza nella crescita interiore dell’umanità?

Il percorso di Marisa e Stelvio Ansaldo è simbolicamente molto forte, perché la speranza è un tema universale. La loro vicenda ci mostra un modo possibile di elaborare il dolore, la scelta di abbracciare “tutta la vita che resta” proprio come atto d’amore verso chi ci è stato strappato.

 

 

 

Si sa bene che oggi la condivisione e il confronto/scontro tra opinioni avviene sempre più sui Social, qual è il suo rapporto con questa dimensione?

Non buono. La pubblicazione del romanzo mi ha fatto scoprire qualche aspetto positivo, come il contatto diretto con i lettori e le lettrici. Però la violenza verbale che permea la comunicazione sui social mi fa paura. È una violenza vigliacca, piena di crudeltà compiaciuta. E poi c’è questa esibizione dell’apparenza a scapito della sostanza. Parliamo in modo ossessivo di accettazione della diversità e nello stesso tempo assistiamo a una spaventosa omologazione: i modelli “vincenti” proposti dai social rispettano tutti gli stessi canoni. Almeno questa è la mia percezione, ecco.

 

Un’ultima domanda. Questo debutto è senza alcun dubbio di altissima qualità sia per la prosa che per la storia e non di meno per i protagonisti, le chiedo se ha già delle idee per un nuovo romanzo e se può esserci un qualche tipo di tensione dopo un risultato simile.

Innanzitutto grazie per le parole di apprezzamento. Il nuovo romanzo c’è già, l’ho scritto lo scorso anno mentre attendevo la pubblicazione di Tutta la vita che resta. La tensione c’è ed è tanta, perché mi dispiacerebbe deludere le persone che hanno amato il mio primo libro. Paradossalmente ho affrontato con più serenità la pubblicazione di Tutta la vita che resta, perché non avevo aspettative di alcun genere. In ogni modo anche scrivere questo nuovo romanzo è stato un viaggio emozionante. Comunque vada, per me ne sarà valsa la pena.

Recensione di Enrico Spinelli

 

UN ESORDIO COL BOTTO: TUTTA LA VITA CHE RESTA Roberta Recchia

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TUTTA LA VITA CHE RESTA Roberta Recchia

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