Abbiamo intervistato SACHA NASPINI: Scrittore “Intenso e Tagliente”
Sacha Naspini, nato a Grosseto nel 1976, è tra gli scrittori italiani più apprezzati nel panorama letterario contemporaneo.
Autore di numerosi racconti e romanzi di successo, è tradotto nel mondo in oltre venticinque paesi.
Tra le sue opere, ricordiamo “L’ingrato – Novella di Maremma” (2006) il suo primo romanzo, “Le case del malcontento” (2018) che ha ispirato il progetto di una serie tv, e “Villa del Seminario” di recente uscita (gennaio 2023), candidato al premio Strega.
Il suo stile inconfondibile regala una scrittura diretta e tagliente, onesta ed intensa.
Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo e lo ringraziamo in modo sentito per averci dedicato un po’ del suo tempo prezioso.
Quanto di Sacha Naspini “uomo” troviamo nelle tue storie?
Più o meno tutto, penso. La roba che va a finire nelle pagine mi riguarda – ambienti, suggestioni, crepe, luci, perplessità eccetera. C’è un raccontare storie che spia dalle parti dell’artigianato; poi ci sono i temi, le vocalità, il portato silenzioso… È banale da dire, ma se scrivi è impossibile che tu sia davvero da un’altra parte. Forse la sparo grossa: perfino se fai un romanzo a meccanismo. Nei personaggi, negli umori generali; o solo il tappeto che scegli: ci sei. Almeno, per me funziona più o meno così. Tra le regole principi: non fare – a capo del proprio ombelico – tentativi di pedagogia. Lì accade il male. Magari vendi un milione di copie, ma sei satanico e non servi a niente.
La scrittura è per te è più un’occasione per destrutturare, analizzare e ricostruire sé stessi o un modo di raccontare il mondo?
Della prima opzione prenderei in punta di forchetta qualcosa. La seconda mi appartiene di più, credo. (Ho comunque il sospetto che le due cose si parlino forte.)
C’è un personaggio dei tuoi libri al quale ti sei affezionato in modo particolare? E se sì, perché?
Lo chiedi alla mamma: li amo tutti, a loro a modo, anche i secondari – compresi quelli nell’ultima fila. Ne dovessi dire uno su tutti, direi Bastiano, dei Cariolanti. Una piccola impresa di voce e di storia che conservo con grande affetto. Non stavo scrivendo: avevo una febbre. Lo feci in cinque giorni. Messo l’ultimo punto la sensazione fu più o meno questa: avevo buttato le budella sul tavolo di cucina. Le sue ambiguità. Il suo incastro nella Storia. Quel non avere strumenti adatti per andare nel mondo, eppure gli tocca… Buffo: inaspettatamente sto scrivendo un bignami della mia biografia.
Ti domandi mai quale può essere la reazione del lettore alle tue storie, soprattutto ad alcuni risvolti di esse?
Durante la scrittura c’è sempre un “terzo occhio” che guarda al lettore ideale. Un po’ me ne frego, un po’ no. Rubando dai miei miti (quindi nella posizione di chi legge): che bellezza quegli autori e quelle autrici che vanno fuori strada, deragliano, che non guardano a ciò che il pubblico si aspetta. Sputano mosche virali dalla bocca. A sedurti nemmeno ci provo. Se non vieni con me, pazienza.
Alcuni passaggi dei tuoi libri sono particolarmente coraggiosi, penso a I Cariolanti o anche a Le Case del malcontento. Cosa ti ha spinto a scrivere quelle storie dandogli un taglio così diretto?
Ma scusa, se non hai coraggio nella scrittura cosa lo fai a fare? È un luogo magico, misterioso, dove puoi tutto. I simboli, i precipizi emotivi, l’ispezione delle dinamiche umane… Scrivere storie è un’occasione meravigliosa, anche se ti fai male. Anzi, soprattutto. Il coraggio, dici. Se non c’è quello, rischi di buttare giù mostruosità tipo “Nella penombra del tramonto ti vidi stagliata ed ebbi il segno del nostro amore”. Se non peggio. Uno si spara un colpo in gola, direi.
Riguardo al tuo nuovo libro, tu stesso hai preannunciato reazioni forti, ed è in effetti probabile che sia così, considerato il delicato tema trattato. Come vivi questo momento?
Sta andando bene, mi sembra. Villa del seminario tocca corde scomode, lo capisco, su vari fronti. La scrittura deve fare questo, no? Altrimenti mi toccherebbe parlare degli uccellini a primavera (per carità, bellissimi – purtroppo sono un fan delle complessità). In questo libro si parte da un fatto storico: un vescovo affitta il seminario estivo a un gerarca fascista per farci un campo di concentramento. Là, in un borgo sperduto di Maremma. Vengo da lì, da quei massi – lo volevo (dovevo) dire.
Hai una fonte di ispirazione particolare? Come nasce una storia e che sensazione provi dopo aver terminato di scrivere un libro?
L’ispirazione non esiste – guarda come sono totale (anche se esiste, certo, ma vomito quando se ne parla in termini poetici). A volte c’è un’intuizione (?), un tema che ti scaraventa da qualche parte. Oppure un libro nasce e basta, da un incipit che mi sembra messo bene… Ci fosse una formula, non te la direi mai. Dopo aver scritto qualcosa, di solito c’è un combattimento. Non sulla resa in sé: esaudire un romanzo nel gesto che cercavo all’inizio non è un interrogativo che liquido da un momento all’altro. Di norma mi sento “licenziato” quando vado in consegna. E non mi percepisco né più leggero né più risolto. Anzi.
Che rapporto hai con i social e cosa pensi della divulgazione della letteratura tramite questi canali? C’è il pericolo di togliere importanza, o comunque peso, a un’opera o il loro utilizzo come mezzo di conoscenza è la conseguenza inevitabile dello stare al passo con i tempi?
Io in questi posti faccio schifo, poveretto. Anni fa hanno anche chiuso il mio Wikipedia. Ho un Facebook e un Instagram che vanno avanti a piccoli proclami: “Sono stato tradotto qui”, “Oggi presentazione a”… Non ho lo stile né il carisma per queste faccende. Però sono uno strumento contemporaneo, no? Comunque a volte me lo chiedo: chissà come sarebbe stato Hemingway su Tik Tok. Secondo me i più sono dell’idea che l’avrebbe snobbato – io sono dall’altra parte: l’avrebbe usato eccome. Mi sembra poi di intuire questo: ci sono librai e lettori che fanno un lavoro enorme su quelle piattaforme. Una recensione sul Corriere della Sera firmata dal più grosso nome del settore è mangiata viva dal tizio che fa divulgazione (seria) dalla sua cameretta. Sai che? Mi sembra una bella cosa – e giù a scroscio le critiche di chi sosterrà che un trentenne senza laurea non è paragonabile a. Eppure c’è un’onda che va là. Inquietante? Non meno di vecchioni che nemmeno hanno preso in considerazione (oggi) la mossa della Beat. Poi, il fatto che tutti possano dire tutto su tutto, che ti devo dire: oggi funziona così. Nemmeno cito Eco – e quindi l’ho fatto.
Che rapporto hai con la lettura? Quale genere prediligi?
Leggo poco, in media una settantina di libri all’anno. Perché scrivo. Poi viaggio molto, se dio vuole. Non ho genere: cerco voci, intenzioni. Un consiglio non richiesto più o meno fresco; romanzo che come uno sciagurato mi ero perso per strada: La perla, di Steinbeck. Ma cosa fa. Che stronzo.
Cosa ti aspetti da Sacha Naspini di domani?
Di darmi un freno su tante cose. E di spingere sul pedale di altre, a manetta.
A cura di Laura Pancini
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