Abbiamo intervistato Valentina Santini e approfondito vari temi di grande attualità presenti nel suo ultimo romanzo “Mosche”

Abbiamo intervistato Valentina Santini e approfondito vari temi di grande attualità presenti nel suo ultimo romanzo “Mosche”

 

Intervista n. 217

 

Valentina Santini (Foto di Michele Guerrini)

 

 

  1. Prima di tutto le chiedo di presentarci il suo nuovo romanzo “Mosche”.

 

Francesco Sforzi è un quarantaseienne che vive ancora con i genitori. È omofobo, misogino, razzista e arrabbiato con il mondo. Di lavoro consegna i volantini, ma la paga non gli consente di emanciparsi dalla famiglia, con la quale ha un rapporto molto conflittuale. L’unica figura di riferimento che pare salvarsi è la nonna Margherita – donna stravagante e da un passato sopra le righe – che in questo momento si trova affidata alle cure di una casa di riposo. Proprio per questo i genitori chiedono a Francesco di liberare la villa da tutte le cianfrusaglie che contiene e di rimetterla in sesto al fine di venderla. Per Francesco si tratta di un’ottima occasione, soprattutto perché gli introiti saranno destinati a lui e alla sorella.

Ed è qui che le cose cominciano a cambiare: mettere mano alla villa della nonna lo porterà inevitabilmente a fare i conti con il suo passato e lo metterà di fronte a un grandissimo segreto di famiglia – che tanto segreto non è – sconvolgendo tutto ciò che credeva di sapere su di sé.

Parallelamente, a capitoli alternati, conosciamo un Francesco completamente diverso: un uomo sicuro di sé, cinico e all’apice del successo. Francesco è diventato capolista di partito. Nonostante le sue idee non siano cambiate, ottiene consensi a non finire. In poche parole: è pronto a prendere le redini del Paese.

Il libro ricostruisce il divario che c’è tra i due Francesco. Com’è possibile che un omofobo, razzista, misogino, iracondo e pieno di opinioni sia in procinto di vincere le elezioni?

 

 

 

  1. Francesco, il protagonista, è una sorta di antieroe e incarna tanti dei cattivi pensieri che incontriamo quotidianamente. Possiamo vederlo come una sorta di simbolo dei mali principali del nostro tempo?

 

Viviamo in costante carenza di tempo. Siamo comandati dall’urgenza di prendere decisioni e di formarci un’opinione su qualunque cosa – da quale detersivo comprare, cosa indossare, cosa votare, a cosa ne pensiamo della guerra in Ucraina. Siamo diventati tuttologi a nostra insaputa. Sottrarci allo scempio che ci porta a dire la nostra a ogni costo sembra quasi una blasfemia. Internet ci istiga continuamente e pretende sinteticità. Pochi caratteri per urlare al mondo che anche io ho la mia idea sul tale argomento. È una disfatta, credo. Mi sembra che tutta questa smania di dire, di aprire bocca e di condividere i nostri pensieri non autorevoli e non richiesti abbia come risultato una cosa sola: la perdita di complessità. Assistiamo a una riduzione ai minimi termini di causa-effetto, senza avere il tempo – o peggio, le capacità – per soffermarci e provare a guardare gli abissi che stanno dietro a ogni questione. Tutto è diventato fast: dal cibo, alla moda, alla possibilità di connessione. Non credo che esista una condizione migliore per dare sfogo al qualunquismo.

Francesco, nello specifico, è vittima dei suoi pensieri, che sono invadenti e intrusivi, ma come ognuno di noi è comandato dalle circostanze. Si sente in dovere di avere un’opinione, e soprattutto di esprimerla. Per farlo, utilizza quello che usiamo tutti in moltissimi casi (auspicabilmente per prendere decisioni e formarci opinioni su argomenti non troppo cruciali): fa ricorso ai bias cognitivi. Scorciatoie di pensiero che ci consentono di prendere delle decisioni sulla base di preconcetti arbitrari. Rapidi e pronti all’uso, ai quali ricorriamo senza neanche rendercene conto (il bias della frequenza, della somiglianza e via dicendo… Tutto materiale che sta alla base dei pregiudizi, per dirne una). È un modo arbitrario, che toglie la complessità dai fatti del mondo, e che ci porta a ragionare di pancia facendo appello alla parte più primordiale e automatica, ma che ci consente una cosa: la rapidità.

Quindi sì, mi pare che Francesco e soprattutto il suo modo di pensare e guardare alla realtà incarnino una parte importante di quelli che per me sono i mali del nostro tempo.

 

 

 

 

  1. A un certo punto il protagonista dice una cosa molto forte, ma precisa e senza dubbio vera: “la politica è pornografia”. Passano gli anni e i governi, eppure la volgarità arriva sempre più spesso dagli ambienti che dovrebbero rappresentarci. Condivide?

 

Abbiamo una presidente che chiede espressamente di essere chiamata al maschile, ministri che rivendicano retaggi del Ventennio, parlamentari che si azzuffano, soldi che spariscono e tresche amorose che mettono a repentaglio segreti di Stato. Un Olimpo scalcagnato – nel quale l’unica cosa dorata sono i vitalizi – formato da divinità bizzose e spesso volgari, che ha ridotto ai minimi storici la distanza tra la cosa pubblica e privata. Francesco dice: «La politica è pornografia. La lunghezza del cazzo si misura con il numero dei consensi». Mi pare che dica il vero.

 

 

  1. Francesco fa una lunga digressione sul selfie perfetto e sui marchi che indossa e nelle interviste la sua componente emotiva appare manovrata dall’esterno: la cultura dell’apparire che sovrasta il lato umano rappresenta una costante sempre più presente ai giorni nostri. Condivide?

 

Quello che ci giochiamo in termini cognitivi quando guardiamo un’immagine non è uguale allo sforzo necessario per elaborare e comprendere un testo scritto. Veicolare messaggi attraverso le immagini è più immediato; richiede molto meno impegno per essere elaborato. Suona un po’ come la scoperta dell’acqua calda, me ne rendo conto, ma a mio avviso è il punto centrale della questione. Se è vero che tutto ciò che sta in superficie, che è visibile, in qualche modo racconta molto di ciò che sta sotto, del sommerso, è altrettanto vero che l’apparenza è un parametro molto poco affidabile per darci un’idea di quello con cui abbiamo a che fare.

Eppure si ritorna a quanto dicevamo prima: siamo comandati dalla necessità di dire qualcosa e di dirlo in fretta. Due secondi netti per formarci un’opinione e poi passare oltre. Il messaggio deve essere chiaro, sintetico, automatico, al limite del sillogismo. L’immagine è il veicolo perfetto. Basta una fotografia per dirti quanto devi sapere di me (e posso controllarla pure meglio di qualsiasi testo scritto).

I mezzi di comunicazione ci mettono continuamente nella condizione di dover apparire in un determinato modo per dimostrare anche di essere (difficilmente è vero il contrario).

In questo i social ci rendono la vita facilissima: basta tenere fuori dall’inquadratura ciò che non ci piace, mostrare il lato migliore, usare la luce giusta e posso più o meno farti credere di essere chi voglio.

Per restare attaccati alla domanda: non so se l’apparire sovrasti o meno il lato umano; sarei più propensa a dire che le due cose finiscono per coincidere creando spesso un cortocircuito agghiacciante.

 

 

Valentina Santini (Foto di Michele Guerrini)

 

 

  1. Nel romanzo spiccano la figura della nonna, la sua casa da svuotare. Che ruolo hanno nella formazione del protagonista?

 

La nonna è il mio personaggio preferito. Ho avuto una nonna che è stata per me l’archetipo di tutte le nonne, la nonnitudine nella sua essenza: dissacrare questa figura imbastendo un personaggio come nonna Margherita – disinibita, volgare, violenta, vendicativa – non è stato affatto facile.

Però ho fatto in modo che fosse centrale, nonostante sia per lo più silente. Riordinando la villa, Francesco entra in contatto con un potentissimo segreto di famiglia, di quelli che una volta venuti a galla sono in grado di ribaltare vite intere. Credo che il perno delle esistenze si fondi tanto su “i segreti di famiglia”, cioè su tutti quei fatti che ci hanno toccato ma che per qualche motivo sono stati omessi, raccontati male o in parte. Ognuno di noi è frutto delle proprie esperienze, della propria storia, di quello che conosce di sé, ma anche (mi verrebbe da dire soprattutto) di ciò che non conosce. Tutto quello che è taciuto ribolle comunque nel sottosuolo del non-detto e viene veicolato ugualmente, portandosi dietro un abisso di ambiguità. È in questo magma che prende forma parte di ciò che siamo. Una parte importante.

 

 

  1. Trovo che la sua scrittura in questo romanzo sia molto efficace, fatta di frasi dirette, schiette, come pugnalate che arrivano dritte al punto senza abbellimenti né passaggi preparatori, e in questo modo ci arriva chiaramente la rabbia e la determinazione di Francesco. È stato qualcosa di voluto?

 

Di questa storia mi premeva il “cosa”, ma soprattutto il “come”.

Siamo nella testa di Francesco, leggiamo i suoi pensieri e il suo modo di intendere la realtà. Ho avuto bisogno di trasferire tutto questo non solo nei contenuti, ma anche nella forma. La maniera che abbiamo di pensare una frase racconta moltissimo di come siamo fatti, ed è in grado di dirci davvero tanto sul nostro modo di essere. In poche parole: ci identifica. Con un personaggio come Francesco mi sembrava un errore prescindere da questo. La voce del protagonista è per me la vera protagonista della storia. Il modo che ha Francesco di ragionare coincide con Francesco ed è in grado di dirci molto su di lui, spesso più del contenuto dei suoi pensieri.

 

 

 

 

  1. Francesco è un ragazzo profondamente razzista e ha un piano quasi machiavellico per portare avanti i suoi ideali, un piano che ci si presenta pian piano in un macabro conto alla rovescia. Viene quasi da pensare al finale della poesia di Trilussa “Er nemico”: “…spesso er nemico è l’ombra che se crea pe’ conserva’ un’idea: nun c’è mica bisogno che ce sia”. Un messaggio terribilmente attuale, non trova?

 

A un certo punto Francesco si rende conto che niente unisce di più di un nemico comune. E forse è vero. La paura è un motore potente. Quella per il diverso, poi, è atavica.

Mi vengono in mente certi film horror: il mostro di turno (il nemico) spesso fa più paura quando non viene mostrato. C’è quel dettaglio che ce ne fa intendere la presenza, ma non ne abbiamo la certezza. È la potenza del perturbante a fare tutto il lavoro. Quando il nemico si manifesta nella sua mostruosità, di solito il disorientamento lascia spazio ad altro. L’ambiguo, l’incerto, l’ombra (per riprendere Trilussa) sono più che sufficienti per creare unione – un’unione contro qualcosa e non per qualcosa.

Per rispondere: no, non è necessario che il nemico ci sia davvero, anzi, spesso funziona di più quando ne raccontiamo i contorni sfumati.

 

 

  1. Il suo romanzo precedente, “L’osso del cuore”, aveva un che del romanzo distopico, anche se fino a un certo punto. Quali elementi di contatto, se ve ne sono, trova tra le due opere?

 

“L’osso del cuore” prende i fatti del regime militare di Videla e li porta in Italia, costruendo un passato alternativo al nostro Paese. I protagonisti, così come tutti i personaggi che si susseguono nella storia, sono danneggiati e cercano un posto nel mondo. Il concetto di danno è cruciale, per me. Con questa parola racchiudo tutte le piccole peculiarità e storture che ci identificano, e che sono frutto della nostra storia personale.

Quanto mi piacciono i personaggi (e le persone) danneggiati. E quanto sono diffidente da chi si mostra come “risolto”.

“L’osso del cuore” è un inno ai danneggiati. È una storia che racconta di come due persone “rotte” si siano trovate e, nonostante tutte le loro storture, si siano volute ugualmente.

La vicenda raccontata è molto distante dalla storia che c’è in “Mosche”, ma mi viene da pensare che anche per Francesco tutto ruoti intorno alla ricerca della propria identità, al bisogno di essere visto, riconosciuto e accettato per quello che è.

Sul fatto, poi, che Francesco sia un personaggio fortemente danneggiato (dalla vita, dalle circostanze, da sé stesso) non ci sono dubbi…

 

 

 

 

  1. Tornando a “Mosche”, il protagonista è narratore ha una vita social molto attiva e anche questo rappresenta molto bene i giorni nostri dove spesso lo scambio e il confronto/scontro avvengono virtualmente. Qual è il suo rapporto con questa realtà?

 

Pessimo. Sono terribile sui social. L’unica cosa che faccio è rilanciare gli eventi che mi riguardano per promuovere le cose che scrivo. “Oggi sono qua”, “Domani vado qui”, “Ho fatto questa intervista”… Ogni tanto metto qualche foto dei viaggi che faccio, e, se proprio sono in vena di esagerazione, pubblico una foto di vita quotidiana. Stop.

Una roba abbastanza patetica, devo ammettere.

Osservo molto le dinamiche che li guidano e le strategie delle persone che, a differenza mia, li sanno utilizzare. Io vivo in una sorta di paralisi/autocensura perenne. Ogni tanto avrei voglia di espormi un po’ di più, soprattutto su certi temi che mi coinvolgono e mi interessano particolarmente, ma finisco sempre col sentirmi profondamente inadeguata. Credo che sia un errore, ma per ora non sono riuscita a fare meglio di così.

I social sono un mezzo potente e pensare di chiamarsi fuori è come decidere di correre una maratona con le zavorre ai piedi. Ho usato volutamente il termine “mezzo”, consapevole del fatto che la tecnologia somiglia sempre di più a un “fine” e sempre meno a uno strumento per raggiungere uno scopo. In soldoni: mi sembra che i social siano sempre più il fine ultimo del nostro stare online, invece che un mezzo che usiamo per divulgare un contenuto. TikTok, ad esempio, mi pare che si basi in gran parte su questa logica autoalimentante, fine a sé stessa, dove TikTok è il fine stesso di TikTok, e non il mezzo. Ma forse parlo così perché non ho ancora avuto né la voglia né il tempo per usare i social come si deve (e poi mi vergogno tantissimo, devo dire la verità). Mia figlia (dodici anni) direbbe che sono una Boomer – anche se anagraficamente faccio parte della generazione X, quella, diciamolo senza paura, con il nome più figo di tutti.

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