Abbiamo intervistato Valerio Varesi ripercorrendo le sue opere a partire dalle ultime pubblicazione

Abbiamo intervistato Valerio Varesi ripercorrendo le sue opere a partire dalle ultime pubblicazione, soffermandoci su molti temi interessanti.

 

Intervista n. 233

 

Valerio Varesi

 

Come prima cosa le chiederei di presentarci “Vuoti di memoria“, il nuovo romanzo con protagonista il commissario Soneri?

E’ un romanzo che pone a confronto la memoria umana, spesso ingannevole perché plasmata dalla nostra mente in modo involontario, e la memoria del computer che altro non è che un giacimento di dati freddi. La prima indirizza le nostre azioni perché è il frutto di un vissuto, la seconda è un insieme di informazioni che talvolta la corregge. In un’inchiesta tutto questo porta a continui sconvolgimenti, a smentite o rivelazioni.

 

 

17 romanzi sono un risultato affatto scontato per un personaggio, quali sono le sfide e le difficoltà nel trovare ogni volta una nuova storia da raccontare?

Alla base c’è una storia, magari una vicenda di cronaca, la quale mi fornisce l’occasione per parlare di un problema sociale, di un ambiente, del male che affligge una comunità di persone, e solo in seconda battuta interviene il personaggio. Se la storia si presta a essere raccontata con lo strumento del giallo, interviene Soneri. Diversamente scrivo con un diverso registro narrativo. Questo mi permette di raccontare vicende con protagonista il commissario, mai ripetitive. Il tema cambia e di conseguenza anche il personaggio stesso si presenta in modo ogni volta diverso.

 

Fermo restando che per conoscere un personaggio la strada migliore è leggere le sue avventure, come descriverebbe il commissario Soneri a chi non lo ha mai incontrato?

Un uomo poco appariscente, molto riflessivo, introverso. Una persona normale come lo era il Maigret di Simenon, ma con “i bernoccoli metafisici” prendendo in prestito la descrizione che fece Carlo Emilio Gadda del suo Ciccio Ingravallo.

 

Il commissario è stato oggetto anche di una trasposizione filmica (“Nebbie e delitti”): che effetto le ha fatto vedere sullo schermo ciò che aveva immaginato e scritto e come giudica a distanza di tempo il risultato?

Ogni scrittore che vede incarnarsi i propri personaggi vive il complesso del figlio sottratto. Credo che lo vivano anche i lettori perché sono condizionati nella loro immensa libertà di immaginarsi i protagonisti a modo loro. Detto questo, credo che “Nebbie e delitti” sia stata una delle migliori produzioni di questo genere viste in tv. Almeno le prime due serie. La terza, decontestualizzata perché girata a Torino, non è parsa all’altezza delle altre due.

 

 

Tornando a “Vuoti di memoria”, il protagonista si interroga sul rischio della manipolazione dei ricordi e quindi sul pericolo della loro inaffidabilità. Trovo che questa riflessione sia di grande attualità a livello storico e sociale, condivide?

Non c’è dubbio che noi viviamo in un’epoca priva di memoria e fatalmente siamo condannati a ripetere gli stessi errori. La velocità dei cambiamenti, mai così rapida come negli ultimi decenni, il digitale che ha moltiplicato esponenzialmente le informazioni rendendoci più confusi, e la scuola che ignora la storia contemporanea, hanno fatto sì che una gigantesca epidemia di Alzheimer colpisse l’umanità. Ma una società senza memoria non ha futuro.

 

Rimanendo sul tema della memoria lei ha scritto un libro molto profondo come “Trilogia di una Repubblica – La sentenzaIl rivoluzionarioLo stato di ebbrezza ” che in qualche modo ripercorre la storia del nostro paese dalla lotta per la liberazione. Quanto è importante tenere dei punti fermi del nostro passato e quanto è difficile trasmetterli visto che i testimoni diretti col passare degli anni sono sempre meno?

Si è interrotto il dialogo intergenerazionale e i ragazzi di oggi non sanno nulla di quel che è successo nel nostro “passato prossimo”. Non sanno niente degli elementi fondativi dello Stato Repubblicano. Io, figlio di un partigiano, ho potuto beneficiare della trasmissione dell’esperienza, loro no. Per questo sarebbe importante coltivare il “vizio della memoria”. Nel mondo piccolo dei libri si cerca di farlo, ma è un granello di sabbia in una spiaggia. Toccherebbe alla scuola, tuttavia i programmi sono vecchi e gli insegnanti sono nel mirino dei politici che molto spesso inquinano la memoria con fandonie, omissioni e racconti di parte.

 

Un altro elemento che compare è l’importanza della tecnologia come strumento per risolvere casi del passato chiusi troppo alla svelta. Visto che si tratta sempre di un argomento controverso quali sono i pregi e difetti del progresso tecnologico a suo avviso?

Nel caso delle inchieste giudiziarie la tecnologia aiuta com’è dimostrato, per esempio, dal processo bis sulla strage alla stazione di Bologna. Con la digitalizzazione degli atti è stato possibile trovare la prova del passaggio di denaro dai conti esteri di Licio Gelli ai neofascisti autori della strage. In altri casi l’intelligenza artificiale potrebbe essere uno degli strumenti di manipolazione di massa più potenti in mano ai potenti. Oltre che, come sostiene Chomsky, il più grande furto dell’ingegno mai inventato.

 

In questo anno è uscita anche la sua ricostruzione della vita di Teresa Noce, “Estella“. Quanto è importante ai giorni nostri (ri)scoprire una figura così grande e importante per la Storia?

Di vitale importanza per ciò che abbiamo detto sulla necessità di conservare la memoria. Considero scandaloso che in questo Paese figure di questa grandezza siano finite nell’oblio. Al contrario celebriamo personaggi che in vita loro hanno solo coltivato un’immagine vuota. Del resto in Italia gli spiriti liberi e innovatori non hanno mai avuto vita facile. Meglio essere fedeli al pensiero dominante del momento.

 

 

È stato definito il “Simenon italiano”, quanto si riconosce in questa espressione? E quanto ha influito nella sua prosa l’influenza del grande scrittore?

Sono lusingato e impaurito al tempo stesso. Simenon è stato uno dei più grandi scrittori del ‘900 ed essere accostato a lui è una medaglia. Ma come dicevo, la sua grandezza mi schiaccia e a un insicuro come me fa pensare continuamente di non essere all’altezza, di beneficiare di una immeritata eredità. Per me e per tutti gli scrittori che si cimentano nel romanzo a indagine, Simenon e l’hard boiled americano, con modalità differenti, hanno insegnato che il giallo è un romanzo sociale. I romanzi “duri” dell’autore belga scavano l’animo umano e portano alla luce le cause di quello che comunemente chiamiamo il male.

 

Quale messaggio principale si sentirebbe di estrarre dalla sua vita per le nuove generazioni, sempre più in cerca di nuovi riferimenti?

Agli studenti che mi capita di incontrare dico sempre di seguire le loro passioni, di buttarsi anche se l’impresa appare difficile. Da adolescenti ci si può permettere di obbedire a ciò che si sente più caro fregandosene della presunta saggezza di genitori o anziani. Meglio affrontare la fatica di andare controcorrente che abbandonarsi a un destino per comodità, che in definitiva è l’anticamera della frustrazione.

 

 

Parlando di riferimenti va da sè che oggi un punto di incontro e, ahimè, di scontro, sono i Social, qual è il suo rapporto con questa realtà?

Li uso in modo del tutto funzionale, per comunicare appuntamenti o novità. Un tempo esprimevo opinioni, ma questo offriva il destro a un esercito di ringhiosi di professione che mi trascinavano in discussioni inutili e fegatose. Quindi ho deciso di astenermi dal bailamme

 

Come ultima domanda le chiedo, guardando alle sue opere nel complesso, se ce ne è una che a suo dire meriterebbe o avrebbe meritato maggiore considerazione.

Direi i miei scritti non appartenenti al genere noir, a partire da “Trilogia di una Repubblica”. Credo che libri come questi avrebbero un pubblico potenziale che tuttavia ignora la loro esistenza. In mancanza di una critica capace di selezionare, in questo Paese vincono quelli che già sono conosciuti, i personaggi televisivi, coloro che hanno un’immagine pubblica in altri ambiti e si buttano sulla scrittura, cantanti, attori… Un piccolo mondo, sempre quello.

Intervista di Enrico Spinelli

 

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