Abbiamo intervistato Vincenza Alfano che ci ha parlato del suo ultimo romanzo “La guerra non torna di notte”

 

Intervista n. 193

 

Come prima domanda le chiederei di presentarci il suo ultimo romanzo “La guerra non torna di notte”

La vita di Cenzina si snoda tra i due conflitti mondiali. È un’orfana della Prima Grande Guerra, affidata dalla madre a uno zio benestante, pittore e fotografo. Educata secondo le maniere signorili, rinuncia al pianoforte perché costretta a un matrimonio combinato con Pasquale, il ricco pasticciere. Il romanzo si concentra sugli eventi del ’43, dopo l’armistizio dell’otto settembre, quando Napoli è assediata dai tedeschi decisi a ridurla a “fango e cenere”. Cenzina dovrà scegliere se nascondere due giovani ebrei. È uno snodo importante che innesca un processo di maturazione personale e collettivo culminato negli eventi delle Quattro Giornate. Alla liberazione della città corrisponde in modo speculare la liberazione di Cenzina e, mi piace pensare, delle donne di quell’epoca.

 

Vincenza Alfano (Foto di Riccardo Piccirillo)

 

Il romanzo parte da una vicenda vera della sua famiglia, quali sono gli stimoli che l’hanno spinta a raccontarla e quali le difficoltà nell’approcciarvisi?

Gli eventi di questi ultimi due anni, in particolare le guerre in Africa, il conflitto russo-ucraino, non c’era ancora stato l’attentato di Hamas con le sue conseguenze, ma anche il riaccendersi di ideologie xenofobe e razziste, mi hanno provocata. Mi sono sentita incalzata dalla necessità di ricordare chi sono, chi siamo, chi siamo stati. La nostra sana avversione alla guerra che non dovremmo mai accantonare. Ho sentito la necessità di scrivere un romanzo che potesse suscitare paura e ribrezzo verso la guerra perché sembra che tutti abbiamo dimenticato lo strascico di sofferenza, dolore, miseria procurato dalle due Guerre e l’impegno a ripudiare questa forma di violenza che è la più riprovevole e la più pericolosa per l’umanità. Mentre cercavo questa storia, si è riaccesa la memoria di un racconto della nonna che ha accompagnato la mia infanzia. Ho dovuto documentarmi per colmare le lacune dei miei ricordi infantili e soprattutto per far collimare la vicenda familiare privata con la storia di quegli anni. Forse la difficoltà maggiore è stata quella di dover affrontare i fantasmi del mio passato, quei luoghi bui che non abitavo da tempo. È stato necessario inoltre trovare un equilibrio tra la vicenda intima e gli avvenimenti storici, assecondando le due anime, i due colori e i tempi diversi di questa vicenda.

 

 

 

Negli ultimi anni sono stati pubblicati sempre più romanzi riguardanti realtà familiari sullo sfondo degli eventi storici, penso al suo libro come anche a “La portalettere“. Possiamo vedere in questa tendenza una sorta di “nuova epica” come quella di cui parlava Calvino riferendosi agli scrittori neorealisti?

Lo dice bene Calvino nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, una della fondamentali testimonianze del neorealismo italiano. A un certo punto una generazione di scrittori di provenienza diversa si ritrova a confrontarsi con la Storia e non può eluderla. Da qui nasce una tendenza che li accomunerà e li porterà a narrazioni affini la cui costante è l’esigenza di raccontare la realtà.

Gli accadimenti di questi ultimi anni hanno spinto gli scrittori a prendere la parola, a intervenire a dare un proprio contributo, Ogni giorno sono messi in discussione diritti dati per acquisiti e ora traballanti, penso al lavoro, alla parità di genere, alla democrazia, all’uguaglianza, alla libertà, alla salute. Non si può restare in silenzio. Si spiega così la produzione di tanti romanzi contemporanei che rinviano al periodo della Resistenza, della lotta partigiana, delle Guerre Mondiali.

 

Francesco De Gregori canta “La storia siamo noi”, crede che vicende come quella che ha narrato nel suo libro diano “profondità” agli eventi storici che studiamo a scuola?

L’esigenza di rinvigorire la nostra memoria collettiva non può essere soddisfatta dalla produzione saggistica e dalla manualistica scolastica. Occorrono storie di persone che abbiano nomi, volti, voci, sentimenti. Lo studio dei fatti, per acquistare maggiore concretezza, deve essere accompagnato dalla storia dei sentimenti, delle passioni, delle sofferenze, delle speranze di personaggi comuni in cui sia possibile immedesimarsi. Solo così possiamo sperare in un cambio di passo. Bisogna colpire il cuore per attivare l’intelligenza di concetti come la libertà, il rispetto della dignità umana, il valore assoluto della democrazia, che altrimenti rischiano di rimanere astratti o poco comprensibili.

 

 

Una sua opera è “Perché ti ho perduto” dedicata ad Alda Merini, con quali parole descriverebbe questa figura così importante nella nostra cultura?

Alda Merini è stata un’anima diversa. Non ha mai rinunciato a un canto autentico mostrando in trasparenza la sua anima. Diversa perché ha invertito le priorità consentendo alla sua ispirazione poetica di dettare tempi, ritmi e scelte di tutta la sua esistenza.

 

Che opinione si è fatta della trasposizione filmica “Folle d’amore” che è stata realizzata prendendo spunto liberamente dal suo libro?

Dico subito per onestà che ho avuto l’onore di condividere più di un tratto di questa avventura, per me assolutamente nuova, col maestro Roberto Faenza che mi ha anche dato un piccolo ruolo nella pellicola perché potessi accompagnare “la mia Alda”. Il film è attraversato da lampi di genialità poetica che rendono onore ad Alda Merini. Credo che il Maestro sia riuscito in un’opera di restituzione che allontana tutti i luoghi comuni circolati in merito alla sua personalità.

È un film girato in punta di piedi, con grande rispetto, attraverso un approfondimento della sua poetica cui hanno concorso il mio romanzo e la testimonianza diretta di Arnoldo Mondadori legato alla poetessa da una profonda amicizia.

È anche un film di denuncia sulla terribile condizione dei malati psichiatrici detenuti nei manicomi prima della Legge Basaglia. L’unico luogo della pellicola più forte è appunto quello delle scene in manicomio.

Se dovessi definirlo con una sola parola, direi che “Folle d’amore. Alda Merini” è un film commovente.

 

 

 

È evidente che la comunicazione e la condivisione passano sempre più spesso attraverso i Social. Qual è il suo rapporto con questa dimensione?

Sarebbe miope sottovalutare il grande potere dei social per chi abbia bisogno o desiderio di comunicare la propria attività o voglia in qualche modo far circolare delle idee. Ma anche per chi voglia conoscere le tendenze, informarsi sull’attualità, essere in qualche modo cittadino attivo del villaggio globale. Sono molto affascinata dalle potenzialità del web e dei social, tuttavia, ho anche un rapporto complicato con questo tipo di comunicazione poco disciplinata da regole chiare e valide per tutti. Temo soprattutto la sovraesposizione, l’autopromozione eccessiva, sfrontata. Per ora mi limito a un uso moderato e soprattutto educato.

 

Come ultima domanda le chiedo se immagina la possibilità di una trasposizione filmica del suo ultimo romanzo?

Me lo auguro, La cinematografia sulle Quattro Giornate di Napoli è piuttosto scarsa se si eccettua il capolavoro di Nanni Loy non c’è altro. Ma si tratterebbe di un film diverso in cui le vicende della città contro i nazisti si incrocerebbero con la vicenda di crescita ed emancipazione di una donna che in quegli anni ha vissuto la sua battaglia privata fino a convergere con le donne resistenti napoletane alle barricate delle Quattro Giornate

 

La ringrazio di cuore per la gentilezza e la disponibilità

Grazie a lei per questa opportunità. I libri hanno bisogno delle gambe dei lettori.

 

Recensione di Enrico Spinelli

 

IL LIBRO DEL MESE: La guerra non torna di notte Vincenza Alfano

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