AL DIO SCONOSCIUTO, di John Steinbeck
Siamo nel Vermont, negli Stati Uniti, all’inizio del Novecento.
Joseph Wayne desidera ardentemente una terra tutta sua, lascia così la casa del padre ed emigra verso le verdi valli della California dove, sotto una grande e profetica quercia, costruisce la sua casa.
Da subito Joseph avverte un legame profondo con la terra, con la quercia che gli rappresenta il padre scomparso, con l’acqua della sorgente che simboleggia la vita, con tutta la natura che lo circonda.
Lo raggiungono i fratelli con le rispettive mogli e tutti insieme si dedicano all’allevamento del bestiame e alla conduzione dei lavori in fattoria.
Tutto è sacro e profetico, non solo Joseph stesso, forse per la benedizione ricevuta dal padre, non solo gli alberi del bosco e l’acqua della sorgente, la roccia con il muschio, le nuvole e la pioggia, ma anche gli animali, i cavalli, il merlo, le colombe, le anatre, le oche..
Ogni pagina è intrisa di significato, di sacralità, di gesti rituali e solenni.
Interessanti ed emblematici i personaggi di Rama e del vecchio che abita al mare.
In genere non mi piacciono molto le lunghe descrizioni paesaggistiche, qui, invece, ho apprezzato le dettagliate esposizioni sulla vita nei boschi o sui ruscelli, descritti con precisione e dolcezza anche e soprattutto nei loro silenzi.
In questo romanzo mi sembra che lo stile di Steinbeck sia più poetico e raffinato, mantenendo però la sua tipica semplicità; non ritrovo l’ironia tipica dell’autore. Chissà quanto abbia inciso la traduzione di Eugenio Montale.
Al Dio sconosciuto è un piccolo capolavoro permeato di profondo panteismo che mi ha suscitato tante emozioni e qualche riflessione: tutti abbiamo diritto a cercare la terra in cui costruire una casa, anche se lontana dalla patria, abbiamo il dovere di onorare questa terra e di difenderla, non per il valore del possesso ma per il rispetto e l’amore per essa.
Mi sembra molto attuale.
Recensione di Giulia Ciarcià
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