Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio, di Lewis Carroll (Newton Compton)
Che cosa mi ha spinto a leggere “Alice nel paese delle meraviglie – attraverso lo specchio” alla mia età?
Non è una domanda facile a cui rispondere, credetemi.
Molto probabilmente le risponde sono infinite, multiple, capovolte, riflesse e forse anche più, prive di ogni buon senso.
Sta di fatto che nella mia lontana fanciullezza Alice non mi aveva né attratto né affascinato. Le sue avventure sconclusionate cozzavano con il mio bisogno di razionalizzare ogni cosa. Sono nata già adulta con tutto il suo fardello di pesantezza e concretezza, come diceva mia madre. Il mondo dei sogni era la dimensione della pazzia ed era meglio lasciarlo nell’oblio. “Ragiona” mi dicevano gli adulti, sempre, quando oltrepassavo il filo sottile della logica e della coerenza.
Ma, ora, a quasi sessant’anni di vita, Alice e il suo mondo non mi sembrano più scombiccherati, assurdi, insensati. Proprio no.
Perché tutte le risposte (saggie) ai miei perché infantili si sono frantumate nello specchio e io non sono diventata Regina.
Se avessi incontrato un Cappellaio Matto mi sarei divertita di più e sarei cresciuta probabilmente senza false illusioni e avrei accettato il risultato di una matematica che propone che 1 + 1 non fa sempre due. Nessun coniglio bianco mi ha mostrato la tana. Ho visto sempre adulti ingessati, infagottati nelle maglie di una sorte preconfezionata.
Non so se Lewis Carroll, irrigidito da una condotta atta a congelare l’animo artistico (l’età Vittoriana a mio avviso di un bigottismo e di una rigidità fuori da ogni logica umana e divina), si sia rifugiato nell’eterno mondo infantile proponendoci la sua Alice, sta di fatto che ha fantasiosamente scombinato le regole di un gioco per non perdersi nel non- sense del reale, immortalando, così, ciò che è destinato a scomparire: la capacità di percorrere, come una scacchiera, le dimensioni dell’esistenza accettando il gioco infinito delle allusioni e delle illusioni, degli scherzi verbali, e con vere e proprie capriole, rifiutare di rispettare il senso comune. E già cos’è oggi, come ieri, il senso comune, se non uniformarsi a un mondo cristallizzato, vuoto, appositamente preparato per determinate esigenze di “mercato”?
La libertà di dare sfogo all’immaginazione con la purezza propria dell’infanzia e demolire i muri in cui l’essere umano si barrica per paura, per convenienza, darebbe spazio ai sogni al fine di oltrepassare la porta dimensionale senza cosi perdersi nel pantano del reale.
L’ apparente tenerezza di Alice, determinata ed eterna bambina, risveglia la capacità di credere anche alla magia (vi ricordo che siamo alle porte del magico Natale) in un mondo cosiddetto reale destinato a spegnersi in ognuno di noi.
Certo il romanzo di Carroll può apparire crudele per chi non naviga oltre, tortuoso, folle soprattutto in un lettore adulto (e già soltanto chi è svezzato comprende i terribili doppi sensi). Del resto il romanzo è stato scritto da un adulto con i suoi reali vizi e virtù, non certo da un cuore puro di una bambina che recepisce il racconto come una semplice favola. E già, interpretatelo come desiderate o con candore o pudicizia. Fate voi.
D’altronde, cos’è la vita se non una inspiegabile follia?
O a dirla alla Carroll
“quel paese spesso agogno;
La vita cos’è, se non un sogno?”
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