ANATOMIA DEL RITORNO, di Paolo Ciampi (Italo Svevo – dicembre 2021)
Il viaggio non è più un viaggio se non c’è poi un ritorno. Dalla letteratura alla vita vera i viaggi che facciamo ci cambiano e rendono a volte difficile tornare. Accettare i nostri limiti, guardare oltre e fare i conti con quel che resta di noi a ogni rientro. Il nostro vagare anche solo della mente è sempre accompagnato dalla sete di conoscenza dell’altro da sé. Irrequieta l’anima continua il suo peregrinare anche nel momento in cui si chiude il cerchio. E rende ogni ritorno denso di nuove possibilità.
«Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai. (Giorgio Caproni, Biglietto lasciato prima di non andar via)»
In esergo troviamo Giorgio Caproni. Giorgio che si veste di ossimoro, si svela e non si svela, in un movimento, quasi una danza di esasperata ironia. Il guizzo del poeta che non trova più corrispondenze nel linguaggio, né sa più se è lui che osserva la vita o se è la vita che osserva lui. E Giorgio constata triste e mesto che le parole afferrano solo frammenti di realtà, scivolosa e spigolosa, meravigliosa e sfuggente, irrimediabilmente ostinata a trasformarsi nel gioco incostante umano.
Gioco che si trasforma spesso in viaggio o viceversa. Il viaggio in tutte le sue forme che non implicano sempre uno spostamento geografico. Si può viaggiare con la fantasia, con le parole, con i libri e in mille altri modi. Oppure si possono ricordare i viaggi che hanno fatto la nostra storia e i grandi eroi o antieroi che li hanno compiuti. Ma soprattutto quando si dice viaggio si dice ritorno. E quando si dice ritorno si dice casa. E quando si dice casa si dice identità. E quando si dice identità ci si chiede quanto siamo cambiati dopo un viaggio?
In “Anatomia del ritorno”, Paolo Ciampi s’interroga sul significato del ritorno, scardinando e confrontando i suoi ritorni con i grandi ritorni della letteratura, a cominciare da quello di Ulisse. Il libro si apre mentre l’autore si trova a Itaca nel tempo presente, ma con la fantasia e le parole viaggia nel tempo che fu o che no fu mai, nel tempo del mito: «Mi sembra di scorgerlo, è lui. Il mento appoggiato sul dorso della mano, lo sguardo che scivola dal mare alla terra, la perplessità in volto.» (p 9) Non è solo il nostro autore seduto su uno scoglio, ha un libro in mano. Il libro è “Itaca per sempre” di Luigi Malerba. Questo capolavoro ci offre n nuovo approccio al ritorno di Ulisse, dove Penelope parla e così scopriamo che ha fatto finta di non riconoscere Ulisse, che è lei a condurre il gioco del ritorno. Eccoci ora a viaggiare con Luigi Malerba e il suo Ulisse, che sembra uno di noi. Scorgiamo un Ulisse intento a decifrare le nuove trame della sorte, a catturare i frammenti di un io contemporaneo, fragile e irrequieto, oltre le coordinate tempo-spazio-cultura.
«Quante volte Ulisse ha sognato la sua isola verde e fiorita. Ma se questa è Itaca, perché ora si presenta arida e pietrosa?» (p 9) Un eterno tornare laddove il ricordo non coincide più con il luogo. «Dovrebbe essere Itaca, ma non la riconosco.» (p 9) Per addomesticare i nostri ritorni, per calmare e rendere docile un tempo difficile, è di grande aiuto soffermarci sulle parole altrui, che svelano come le emozioni furono a loro tempo accolte. «Pesco dal mio zainetto una matita. Questa frase non la lascio cadere, me la tengo stretta.» (p 9)
Così ci sentiamo meno soli ai nostri rientri. Diventiamo parte integrante del mondo delle lettere: «è cominciata con il ritorno la nostra letteratura» (p 13) E non solo. Il mondo è fatto di viandanti, di profughi. Di chi non può tornare a casa: «mondo di migranti per scelta e per necessità, di uomini e donne che in qualche modo cercano casa.» (p 13) Ed ecco che allora è importante ampliare il concetto di ritorno, al quale si associa il concetto di casa: «Partire, tornare: Questo è il ritmo necessario, questo è ciò che fa di un uomo in movimento un viaggiatore. A dispetto degli innumerevoli viaggi senza ritorno, nel bene e nel male. Si parte portando con sé l’idea di casa, per imprecisa e discutibile che sia: covo di affetti, spazio di complicità, riserva di passato, semplicemente tana.» (Pag. 19). La casa non sono le mura, ma le persone che amiamo e che amano. Vediamo ora apparire il grande Jack nel suo bisogno intimo di tornare dalla madre: «questo è Kerouac, non una pallina da flipper per le strade americane, ma un pendolo, che si allontana da casa per farci ritorno.» (p 21)
E mentre il nostro sogno americano si riempie di immagini del secolo scorso con strade polverosa e cercatori di vita che amano di tanto in tanto far ritorno ai piatti prelibati cucinati dalla mamma, con Madoc e il folclore del romance medioevale, scopriamo «il mistero dei gallesi svaniti nell’immensità del continente americano.» (p 30) ben prima di Cristoforo Colombo, il quale però fece ritorno al suo mondo di origine.
Quante navi affondate in fondo al mare. Chissà quanti sogni e ritorni persi nelle onde profonde degli oceani. E senza più remi e speranze, può venire in aiuto solo la poesia. Quella di Omero, innanzitutto. Come Charles Peguy ne avvertiamo il bisogno: «Omero è nuovo stamattina, e niente è forse tanto vecchio quanto il giornale di oggi.» (p 39)
E allora il richiamo viene da lontano: «l’immenso Bashō: è a lui che questo mare mi conduce» (p 43). Come si accennava prima, non vi sono più confini. Si viaggia liberi nel tempo, nello spazio, fra continenti e culture diverse. E diventiamo noi stessi quell’altro da sé tanto agognato. O meglio ci fondiamo con gli elementi. Con la natura: «Mi sento vento. E il vento non si sa dove comincia e dove va a finire» (p 51) proprio perché «il tempo della poesia non ha bisogni di calendario» (p 51)
E dove la mettiamo la poesia dei nostri viaggi? Dei nostri ritorni? Forse può essere d’aiuto Samuel Taylor Coleridge, tra i fondatori del romanticismo inglese, che con la sua “Ballata del vecchio marinaio”, indaga il senso della vita del poeta: allontanato dalla ricerca della verità viene salvato dal potere dell’immaginazione e torna per raccontare la sua storia. Il racconto cattura la poesia. Le parole sono la nostra salvezza. Ma è importante sapere tenere distinti il quotidiano dal viaggio e imparare a tornare nel caos di tutti i giorni, fra lavoro, famiglia, amici e impegni sociali. «C’è bisogno di umiltà nel ritorno.» (p 83) Come insegna il poeta e regista Franco Arminio: «andare e poi tornare, questo era il mestiere: / cucire una terra all’altra col filo del fiato.» (p 101) e cioè con le parole che fanno vedere quello che gli occhi non possono vedere oltre le geografie e le visioni limitate da un necessario vivere quotidiano accanto alle cose della politica, dell’economia, del marketing, della rincorsa del successo e dell’effimero. Sì Giorgio, si torna lì, al tuo non ritorno, al tuo ossimoro. Il cerchio si chiude per poi riaprirsi al prossimo giro. Al prossimo non partire.
Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto
ANATONIA DEL RITORNO Paolo Ciampi
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