ANCHE CALVINO HA I SUOI CRITICI: LE CITTÀ INVISIBILI, di Italo Calvino
“Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio”.
Stavolta Calvino non è entrato nel mio stato né neurale né neuronale.
È rimasto nel padiglione auricolare e non è andato oltre.
Pur genuflettendomi alla capacità linguistica, onirica e speculare dell’autore, il libro “Le città invisibili” non ha toccato le mie corde letterarie. Non ho capito il senso, il non senso, il tutto e il nulla. O forse l’ho capito ma nel capirlo mi sono talmente stancata che ho spento le luci del mio comunissimo cervello umano.
Fino a dire basta.
È sicuramente la primavera che risveglia in me, con la sua aria deliziosamente incostante, la voglia di non spremere le menigi (l’unica e valida spiegazione dato che a me Calvino piace)
E da ciò, personalmente, non la ritengo una lettura di trapasso stagionale, almeno per quanto mi riguarda.
E dire che il libro viene decantato per la scrittura leggera, quasi cristallina, semplice, divertente. Non so che pensare. Io l’ho trovato contorto, metallico, gelido e impersonale più del previsto (Calvino, si sa, ha il suo stile)
Ma ne “Le città invisibili” Italo Calvino si è divertito fin troppo a riempire gli appunti con la sua insaziabile e vasta cultura farcita di potenza immaginativa visionaria e simbolica. E ricavarne un libro da interpretare con il cervello pronto a 360°. Creare dalla semplicità dell’argomento un groviglio talmente aggrovigliato da perdere parte dell’originalità
A dire il vero a me piace la narrativa cosiddetta contorta sperimentale, simbolica, surreale, figurativa, insomma sui generis, ma questa non l’ho digerita bene. Chissà che cosa mi immaginavo, io viaggiatrice nel fisico e nello spirito. Io che giro e rigiro per smaltire il carico di nostalgie, chissà che poesia mi aspettavo in queste città invisibili.
E invece le 55 città sembrano tutte uguali, si mescolano e rimescolano in un gioco semiotico, semantico, surreale, onirico, esistenziale diabolico, emblematico, visionario. Fino a dire: basta e basta.
Marco Polo, il fortunato mercante veneziano, racconta le città da lui attraversate e visitate al melanconico imperatore Gran Kan, scimmiottando “Le Mille e una notte”. E qui si creano dialoghi che sembrano rebus, giochi enigmistici dove la verità si mescola con la menzogna e la menzogna con la verità senza perdere entrambe la loro potenza persuasiva.
Il nostro veneziano queste città le ha visitate davvero? Oppure è tutta un visione, un gioco dell’immaginazione, il risultato di un sogno o lo spavento di un incubo?
Sta di fatto che queste città somigliano molto agli esseri che li hanno edificate.
Un groviglio di splendore e decadenza, di volte celestiali e incubi sotterranei. Strati e strati di memoria; lucide balustre di marmo sospese nell’ignoto, melma sotterranea pietrificata nelle ossa dei defunti.
Città atemporali, senza confini, senza perimetri sebbene soffocate dai confini della memoria e dai perimetri dei nostalgici splendori. Proiettate in una realistica prospettiva futuristica.
55 città invisibili sull’atlante del grande imperatore, ma tangibili in quella realtà fatta di immagini spesso spettrali e inquietanti.
Perché è così, è l’illusione di una città ideale -e il lettore ha il compito, se vuole, di prendere un pezzo qui e un pezzo là e cominciare a crearla- si cela in quelle 55 città dai nomi di donna. E non è un caso che siano donne queste città aggrovigliate su sé stesse, in sé stesse, tra sé stesse. Ninfe e naiadi. La città è donna, sorretta da cariatidi, la città è complessità nel suo lacerante velo di Maya, è vita e morte, la città è scambio e isolamento, gioia e delizia, afflizione e pena. La città è potenza di luce tra le guglie di un monumento, la città è spazzatura di consumo e spreco. La città è abbondanza fra vie illuminate, la città è miseria tra i sobborghi e le cloache abitati dai topi.
Ahi ahi che sciarada infernale.
Eppure qualche epigramma o epigrafe, sparsa qui e là, risulta da sottolineare, e fra tutte la più nota e la più reale, la più concreta in questo inconciliabile dilemma platonico fra realtà e mondo delle idee:
„L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.“
Non so fate voi. Leggetelo. Per me una volta basta.
Brava! sono d’accordo, ma per me, che ho studiato a fondo il testo, avendone fatto l’oggetto di una mia tesi, c’è dell’altro, dell’altro che forse attenua la freddezza matematica e tutta la freddezza imputabile quanto inesorabile. Peraltro non sono nemmeno sicura che l’unica cosa che si possa fare con l’inferno sia di evitarlo, vogliamo dire che Dante ha fatto tutt’altro? Se dovessi dire, il senso che ha colpito per me è esclusivamente la vista. Disegna filigrane e merletti, roba da incisori d’altri tempi o da beguinage di Bruges. Gli intervalli di conversazione con Kublai Khan sono deprimenti. Marco cerca di intrattenerlo, ma niente ha il gusto frizzante delle conversazioni di Shahrazād con il re misogino. Insomma, sono contenta di avere letto un parere così personale.