ANIME ALLA DERIVA, di Richard Mason
Attraversando un lungo e angusto vicolo fortunatamente costellato da simpatici e coloratissimi murales, mi si para davanti, proprio nel centro storico della mia città che da qualche anno a questa parte è zona pedonale, una piccola e deliziosa botteguccia di libri usati: non più di cento passi all’incirca dall’Istituto dove presto servizio.
Ed è ormai diventata una piacevole consuetudine, all’uscita del lavoro, soffermarmi a respirare l’odore leggermente acre e umidiccio di quei libri che hanno conosciuto diverse mani e altri occhi.
La botteguccia, linda e pulita, ordinata per genere, è gestita da una giovane signora che rispecchia in toto l’atmosfera rassicurante e familiare che aleggia all’interno della sua minimale attività.
Qualche giorno addietro, mentre mi aggiravo tra gli scaffali, con atteggiamento ormai confidenziale la simpatica titolare dagli occhi ridenti attraverso i vetri di un’eccentrica montatura, mi ha poggiato letteralmente fra le mani il libro in questione dicendomi di leggerlo e di farle sapere cosa ne pensavo, senza fretta per poi restituirglielo con calma
Al mio sguardo leggermente sbalordito, ha aggiunto a mo’ di spiegazione, che in linea di massima lei conosce il contenuto dei libri che vende in quanto le piace indirizzare la sua affezionata clientela adattando il genere in conformità ai gusti. Ma “Anime alla deriva” no. Non lo conosce proprio. Quindi, sapendo della mia velocità di lettura, mi chiedeva se mi andava di leggerlo per lei e farle sapere.
E cosi la sera stessa mi sono cimentata alla lettura di “Anime alla deriva” più spinta dalla garbata e fiduciosa richiesta che dalla poco invitante copertina e dal titolo banalmente e tragicamente romantico.
“Anime alla deriva” è un romanzo in tutto e per tutto inglese. Partiamo da qui.
Non solo per la nazionalità dell’allora giovane autore (22 anni, nato a Johannesburg ma naturalizzato inglese), ma soprattutto nei dialoghi, nella forma, nell’ambientazione nella trama e nello stile, riducendo il narrato in un presuntoso quanto pomposo percorso psicologico con risvolti alla Hitchcock.
Il protagonista, Jamel Farell, giunto alla soglia dei 70 anni è costretto a ripercorre, dopo una sorprendente scoperta, un passato doloroso che per cinquant’anni ha sepolto in una spessa coltre di egoistica serenità, manipolato abilmente dalla moglie Sarah.
La trama è ambiziosa ma il progetto di buon romanzo è riuscito, a mio avviso, solo in parte.
L’inizio risulta invitante, il percorso è scivoloso nelle snervanti ripetizioni di scavo introspettivo che il protagonista si autofligge, il finale un flop.
James risulta antipatico sin dall’inizio sebbene si atteggi continuamente a vittima tra gelosie e invidie altrui, autodefinendosi un burattino in mano, come egli stesso continuamente accusa, del Fato e del Destino che lo hanno costretto a una pressione sociale dovuta alla sua aristocratica condizione e alla sua allora giovane età.
Lo stile è infarcito di “epoca vittoriana” malgrado l’ambientazione anni ’90.
La scrittura trabocca, in un groviglioso impasto, di classicismo e citazioni sui sentimenti positivi e non (amore, amicizia, invidia, gelosia, sensi di colpa etc), tutti tratti inequivocabilmente umani. Che poi non sono neppure scritte male, ma sono troppe!
Nondimeno, riflettendo a freddo sono proprio tali citazioni, forse, che hanno fatto abboccare quei lettori dall’animo inquieto ed eccessivamente romantico e sensibile (la maggior parte di noi tutti) tanto da non accorgersi di una trama traballante e incerta. Chissà. A me sono sembrate una continua forzatura letteraria.
L’ambientazione si svolge soprattutto in una Londra monarchica, snob che puzza di convenzioni e rituali feudali nei quali l’amore viene sacrificato, l’amicizia calpestata al fine di oltrepassare la soglia dell’ambito “castello” dove le dorate nubi offuscano una verità scomoda.
James Farell, rampollo dell’alta società conteso da due cugine che si odiano (la loro sanguinosa rivalità mi ha fatto venire in mente la mostruosa, nostrana e plebea, storia di Sarah Scazzi) nonché l’io narrante, lasciatemelo dire perdonandomi l’espressione, risulta un pericoloso ed egotico gran coglione che si spaccia per sognatore benché non perda mai di vista successo e benessere economico.
E le due nobili cugine, rivali sanguinose, risultano due figure nettamente incanalate l’una nella casella dei buoni e l’altra nei cattivi, perdendo così intensità e pathos nella mancanza di un’analitico quanto richiesto approfondimento psicologico.
Detto tutto ciò che cosa devo dire alla mia amica libraia?
Che il romanzo “Anime alla deriva”, tradotto in 22 lingue e best seller degli anni novanta, va consigliato a chi non vuole impegnarsi troppo e vuole trascorrere qualche ora ad appuntarsi espressioni buone per poi riportate su fb con tanto di cuoricini e stelline.
Perché l’unica spiegazione di tale lontano successo potrebbe essere ricercato, a mio avviso, nella giovane età dell’autore e allo sforzo di questo nel mettersi nei panni di un uomo di 70 anni, ricostruendo sfacciatamente un passato a lui ancora precluso.
” Il fatto è, James, che bisogna accettare una certa dose di pressione sociale. Fa parte del nostro essere creature umane, immagino; dopotutto siamo animali socievoli. Il pericolo è lasciare via libera a questa pressione, permetterle di toglierti il terreno da sotto i piedi. Sei tu che devi tenere la tua vita sotto controllo, ma in pratica non è cosi. Lasciamo che siano gli altri a dettarci le nostre opinioni su religione, sesso, classi sociali, politica, su tutto ciò che conta; seguiamo le idee del particolare branco a cui apparteniamo. Pensi come pensano i tuoi amici, come pensa la tua famiglia, come esige la tua classe e la tua educazione.”
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