ANNUS MIRABILIS, di Geraldine Brooks
“Com’è strano, Anna. Nella mia mente ho registrato la giornata di ieri come una buona giornata, nonostante sia stata piena di questa malattia mortale e del dolore di chi ha subito di recente delle perdite. Tuttavia è stata una buona giornata, per il semplice fatto che non è morto nessuno. Siamo ridotti a uno stato tanto pietoso da dover misurare il bene con un metro ben corto”
Da sempre appassionata al genere “romanzo storico”, non potevo non rileggere, a distanza di circa vent’anni, questo libro che, se già all’epoca avevo giudicato delizioso e crudo allo stesso tempo, letto con lo spettro di ciò che stiamo vivendo attualmente a causa del Covid, assume senza dubbio una valenza strategica.
Un libro che riesce a trasportarti in un’epoca e a fartela vivere in tutte le sue sfaccettature, facendo percepire, ancor più di quanto ognuno di noi avrebbe potuto immaginare, la sofferenza causata da un’epidemia di peste nel 1666.
Seppur i contesti storici siano differenti, molte sono le analogie che rendono purtroppo attuale il tema di come un’epidemia, che sia la peste o nel nostro caso il Covid, arriva inaspettatamente, come un viaggiatore indesiderato e semina paura, morte e dolore in una popolazione che, stremata dalla sofferenza, rischia di poter cadere nella superstizione di chi non ha più altra speranza.
La voce narrante è quella di Anna, una giovane donna tanto fragile quanto coraggiosa, che non si lascia devastare dalla disintegrazione della sua famiglia, ma, al contrario, recupera tutto il coraggio che le è rimasto per essere di aiuto a chiunque ne abbia bisogno, maturando e migliorando le sue conoscenze ogni giorno di più.
L’alter ego di Anna, o meglio la visione prospettica di come lei stessa vorrebbe diventare è Elinor, donna colta e generosa nonché moglie del rettore del villaggio, Michael Mompellion, un uomo forte ed energico che, di fronte alla peste, riesce a mantenere salde le redini delle anime del suo villaggio così come lui solo sa fare con il vigoroso cavallo Antares.
La sua sarà una scelta non facile, ma indispensabile, quella di vincolare tutti ad un giuramento che li obbligherà ad una quarantena volontaria per far sì che la peste non si propaghi al di là dei confini del villaggio.
L’autrice caratterizza in maniera precisa, ma mai noiosa, allo stesso tempo il paesaggio della campagna inglese, dai colori tenui e dal verde abbagliante e rassicurante, e le sensazioni, le percezioni, sia psicologiche che fisiche, dei personaggi, ognuno diverso per la sua storia e il suo dolore, ma resi uguali di fronte all’enormità di quello che sono costretti a vivere.
Leggendo questo libro è impossibile non sentirsi ancor più partecipi delle loro emozioni e, ahimè, trovare parallelismi tra quelle che diventano le loro “abitudini”, così come in questo periodo sono diventate le nostre; come noi, ormai avvezzi a stare ad una distanza imposta gli uni dagli altri, anche loro si distanziano nel grande prato che è diventato la loro chiesa; molti di loro perdono tutto, scompaiono mestieri essenziali per una comunità, e come non pensare alle categorie che oggi sono quelle economicamente più colpite dal virus… Ma i tre personaggi chiave, accompagnati da quelli più marginali ma non meno essenziali, lasciano, in primo luogo, un messaggio di amore e di dedizione incondizionata verso gli altri, a dispetto delle precauzioni per la loro stessa sorte e, in secondo luogo, un messaggio di speranza.
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