ATTI UMANI Han Kang

ATTI UMANI, di Han Kang (Adelphi)

La scrittrice sud coreana Han Kang racconta in Atti umani la rivolta che si svolse nella città di Gwangju nel 1980, quando un gruppo di studenti e operai si mobilitò contro il dittatore dell’epoca resistendo allo spietato assedio del governo. Si tratta di una straordinaria discesa agli inferi della sopraffazione e il romanzo si chiama proprio Atti umani perché il libro si snoda tutto attorno al dilemma morale della scelta. E la scrittrice non ci indica la strada ma semplicemente mostra la sua interpretazione di quei terribili nove giorni. Non propone nulla ma ci mostra attraverso quali meccanismi l’uomo può operare per il male.

Con totale freddezza, senza mai guardare in faccia l’inerme, provocandogli ferite che somigliano a quelle delle radiazioni perché la violenza non impatta solo su chi la riceve e sul corpo martoriato che la subisce, ma è un colpo inferto a tutto ciò che ci circonda e anche alla natura. Kang per parlare della coscienza e del bisogno di giustizia predilige una narrazione polifonica. Ma questo non significa affatto sacrificare la soggettività. Perché la sofferenza è sempre soggettiva, perché le esperienze non sono mai veramente condivisibili ma si potenziano, diventano gorgo e carne perché si impastano con i nostri ricordi, con la babele dei nostri significati, con odori e suoni che hanno accompagnato la nostra esistenza. Ed è in questo che la scrittrice compie il miracolo narrativo. Perché alle volte una narrazione che parli alla coscienza delle ingiustizie della storia rischia di essere manichea e declamatoria.

Rischia quindi di tradire ciò che la narrativa deve operare per essere davvero tale, parlare alla nostra soggettività. Ecco perché lei affida a sette voci narranti, compresa la sua, il compito di affrontare l’indicibile. Sono sette punti di vista diversi, che presuppongono una strutturazione circolare perché si conclude con il punto di vista della scrittrice che, all’epoca dei fatti, aveva solo nove anni e di quegli eventi subì l’impatto. Per cui anni dopo, soprattutto perché il paese mai aveva davvero reso omaggio ai martiri di quell’eccidio, ritenne di dover tornare sui luoghi e avviare una dolorosa ricerca che si tradusse in un percorso di espiazione collettiva. Le voci, infatti, continuavano a riecheggiare in lei e la necessità umana e storica di rendere conto di un evento così poco conosciuto si fece strada in lei. In questo percorso nulla viene edulcorato.

Ogni tortura e ogni morte scava un solco profondo rendendo a tratti la lettura quasi insostenibile. Eppure si va avanti e non per voyeurismo ma perché anche noi seguiamo questo itinerario alle volte ellittico. Il primo di cui si parla, quello da cui prende avvio la storia, è un quindicenne alla ricerca di un suo amico morto durante le sparatorie. Lui si reca nei luoghi di raccolta dei corpi. In questo luogo di morte, dove i corpi sono ammassati senza un criterio e senza alcuna pietà, lui e due ragazze cercano di disporre i corpi, di coprirli, di dare loro la compostezza che hanno perso. Alcuni verranno vegliati e vestiti dai propri cari, altri no. Ed è in questa disparità di trattamento che si gioca l’umanità.

Ed è nel ricordo della morte della nonna che il giovane maturerà l’idea di non tornare a casa ma di continuare a dare una mano. Perché quando la nonna era morta qualcosa era aleggiato attorno a lei, come un uccello che le girava ancora intorno. Era l’anima? Su questo dubbio, su questa lieve e laica preghiera per i morti, su questa ricerca di senso dentro l’orrore palpita tutta la potenza di questo romanzo. Per cui quando poi il testimone della narrazione viene consegnato all’amico morto da poco non ci stupiamo, perché il confine tra vita e morte è labile e perché i sopravvissuti, marchiati dal dolore, non saranno poi molto diversi dai morti.

Recensione di Marianna Guida

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