ATTRAVERSARE I MURI un’autobiografia, di Marina Abramović, James Kaplan
Dal 21 settembre 2018 al 20 gennaio 2019 Palazzo Strozzi ha ospitato una grande mostra dedicata a Marina Abramović, una delle personalità più celebri e controverse dell’arte contemporanea, che con le sue opere ha rivoluzionato l’idea di performance mettendo alla prova il proprio corpo, i suoi limiti e le sue potenzialità di espressione. Una retrospettiva che riuniva oltre 100 opere offrendo una panoramica sui lavori più famosi della sua carriera, dagli anni Sessanta agli anni Duemila, attraverso video, fotografie, dipinti, oggetti, installazioni e le sue performance più famose eseguite dal vivo da un gruppo di performer selezionati e formati ad hoc.
Un’esperienza potente, che metteva lo spettatore al centro: in tantissime forme poteva cercare di interagire con l’arte mettendo alla prova la propria sensibilità, lasciando da parte razionalità e comprensione. Finalmente l’arte si vive, si respira. Si fa esperienza di e con l’arte. Un evento importante per la città di Firenze e al quale non volevo andare impreparata. E prima di andare alla mostra, ho letto il libro autobiografico scritto a quattro mani con James Kaplan. E ve lo consiglio. È un modo molto intimo per conoscere quest’icona dell’arte e della performance.
Marina Abramović è la prima che ha usato il proprio corpo come tela, come arma, come mezzo espressivo dell’arte. Donna eclettica, mette lei e molto altro nelle sue opere. Ci mette un furore violento e incondizionato, l’anima nuda e i lati oscuri di un io inconscio, ci mette quasi sempre le relazioni con il pubblico e la dicotomia corpo e mente. Autodefinitasi “Grandmother of performance art”, la Abramović ha inteso sin dall’inizio della sua carriera sottolineare la capacità rivoluzionaria del suo modo di esprimere la performance artistica. E si può dire che è riuscita a rendere universale il suo pensiero. Famoso. Ovunque. A meno di 200 chilometri da New York, da qualche anno, un palazzo porta il suo nome e promuove l’arte della sua ricerca sulla performance.
Pubblicato per festeggiare i suoi settanta anni, “Attraversare i muri” ha subito avuto un grande successo. Come tutto quello che si chiama Marina Abramović. Il marketing con questo nome funziona. Alla grande. L’approccio creativo si fonde con il rigore della disciplina dando vita ad una notorietà fondata sulla responsabilità di esprimere che la durata temporale ed il processo siano costituenti di una nuova arte intuitiva, mentre l’oggetto viene rilegato all’apparenza del suo essere.
Tutto al servizio dell’arte. Una vita che si esprime con l’arte e viceversa un’arte che si esprime con la vita, sottolinea Alejandro Jodorowsky, grande estimatore dell’artista montenegrina: «l’arte è un sogno finché dura, una presenza assoluta nel vuoto.»
È nata a Belgrado il 30 novembre 1946. I suoi genitori erano stati partigiani durante il secondo conflitto mondiale e poi militari. L’atmosfera marziale che vigeva in casa, in particolare la propensione della madre alle punizioni corporali, ha probabilmente influenzato molto la sua personalità artistica autolesionista. Quando a 14 anni chiede al padre dei colori per dipingere, lui fa di più: le presenta un suo amico che la coinvolge in una curiosa performance durante la quale tagliuzzano una tela, ci gettano sopra colori e materiali di vario tipo e gli danno fuoco.
Marina ha capito qual è la sua strada. Frequenta l’Accademia delle Belle Arti di Belgrado e, nel 1973, debutta con una rappresentazione straordinaria. La sua prima opera, Rhythm 10, mette in evidenza l’importanza dei gesti e il replicarsi del passato. Servendosi di 20 coltelli e 2 registratori, l’artista pianta ritmicamente la punta di una lama tra le dita della mano, come un pericoloso gioco fra adolescenti. Nel 1975 è la volta di Marina Abramović: Art must be beautiful. Marina si spazzola i capelli con due pettini di metallo per un’ora di fila in cui ripete che l’arte e l’artista devono essere belli, fino a deturparsi il volto e a rovinarsi i capelli. Con Lips of Thomas, nel 1975, compie atti esasperanti come mangiare un chilo di miele e incidersi sul ventre una stella a 5 punte con un coltello.
Nel 1976, ad Amsterdam, incontra un artista tedesco nato il 30 novembre come lei, che sarà il suo amore più grande e più famoso: Ulay. Fra i due prende vita un sodalizio totale, artistico e personale. Inscenano varie performance come Imponderabilia, a Bologna. Entrambi sono completamente nudi e posti ai lati di una stretta porticina che consente l’entrata in galleria. Per accedere, il pubblico deve strizzarsi fra loro in un’intimità forzata quasi imbarazzante. Il loro legame dura 12 anni, per un periodo vivono anche in un furgone, sperimentano insieme i limiti del corpo e dell’anima.
Nel 1988 percorrono a piedi la Muraglia Cinese, partendo dagli estremi opposti. lui dal deserto del Gobi e lei dal Mar Giallo, e dopo una camminata di 2500 chilometri si dicono addio. Questa ultima impresa insieme si chiama The Lovers.
«In questo intimo memoir, – ci dice il critico Willem Dafoe – Marina Abramović si confessa, si confida, si lamenta, insegna e riflette con intelligenza e humor sulla sua vita magia e sulla sua arte liberatrice.». Laurie Anderson lo definisce: «Bellissimo, toccante, profondo. Un ritratto ricco e dignitoso.»
I consigli del Caffè Letterario Le Murate Firenze, di Sylvia Zanotto
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