BREVE TRATTATO SUI PICCHIATORI NELLA SVIZZERA ITALIANA DEGLI ANNI OTTANTA Manuela Mazzi

BREVE TRATTATO SUI PICCHIATORI NELLA SVIZZERA ITALIANA DEGLI ANNI OTTANTA, di Manuela Mazzi (Laurana Editore)

 

Correva l’anno 1817 quando il poeta romantico – molto romantico – Samuel Taylor Coleridge intuì – molto romanticamente – che ciò che le narrazioni chiedono al loro lettore è una «willing suspension of disbelief», una «volontaria sospensione – del dubbio, dell’incredulità, o addirittura dello spirito critico», a seconda di come si voglia tradure. Oggi l’affermazione potrà sembrare banale; ma al tempo del gran Samuel quella cosa che gli inglesi oggi chiamano «novel» era una novità, e una novità mica del tutto accettata. Il «novel» è la narrazione di taglio realistico, cioè quella narrazione che ci presenta personaggi credibili che in luoghi e tempi credibili compiono azioni credibili (a vostro piacere, al posto di «credibili» potete scrivere: «realistici», «verosimili» ecc., e non cambia nulla) e si distingueva, nella mente di Coleridge come di tutti i suoi contemporanei, dal «romance» (da noi, con significativa mediterranea ambiguità, anch’esso chiamato «romanzo»), cioè quella narrazione che ci presenta personaggi incredibili che in luoghi e tempi incredibili compiono azioni incredibili: per farla corta, l’«Orlando furioso» e il «Signore degli anelli» sono «romance», «I promessi sposi» e «Guerra e pace» sono «novel».

Ai tempi del Coleridge quella cosa che con termine inutilmente albionico noi oggi chiamiamo «fiction» – ovvero la narrazione di storie inventate – non aveva quella rispettabilità che oggi le si riconosce. E in particolare la «narrazione di storie inventate che sembrano vere» suscitava un certo sospetto: come se più che di invenzione di trattasse di inganno del lettore. Tanto che alcuni grandissimi romanzieri pubblicavano le loro opere, un po’ vergognandosene, anonimamente (*tutti* i romanzi di Walter Scott, per esempio: ché lo Scott era anche uno stimato poeta e temeva, svelandosi anche come autore di romanzi, di perdere credito); mentre altri si nascondevano dietro i loro stessi personaggi, spacciandoli per persone realmente esistite al mondo (e quindi pretendendo che quei testi non fossero «romanzi» ma documenti, testimonianze, memoriali: è il caso, per esempio, delle anonimissime (ancora oggi non si sa chi le abbia scritte) «Lettere di una monaca portoghese» (un bestseller del Seicento dalla fortuna intramontabile) o del «Robinson Crusoe», il cui autore – e giustamente: è scritto in prima persona – risultava fin dal frontespizio essere non il perfido Daniel Defoe ma appunto il marinaio, preteso vero e autentico, che per diciassette anni era vissuto sull’isola deserta, eccetera (ma ovviamente il Defoe si era, come si dice oggi, «basato su una storia vera», benché liberissimamente inventando; cosa che rendeva il tutto ancora più ambiguo).

Ai primi del Novecento il «principio di Coleridge» andò in crisi, e tutti i migliori scrittori di romanzi si diedero da fare per comporre opere che, in un modo o nell’altro, inibissero la sospensione dell’incredulità del lettore: ovvero, opere che si facessero credere vere da cima a fondo, sì, ma non per il solo tempo della lettura, non per il solo tempo della partecipazione del lettore all’immaginazione dell’autore, oppure – al contrario – opere che pur usando tutti i mezzi e i trucchi e i tic e gli espedienti e le raffinatezze della «narrazione realistica» riuscissero nel paradossale intento di non farsi credere mai, di sollecitare a ogni piè sospinto l’incredulità del lettore: e potremmo citare il magno «Ulysses» (che basterebbe: ma gli aggiungiamo tutto il Thomas Mann biblico, l’Hermann Hesse castàlico, lo Svevo zènico, e così via) per la seconda categoria, e l’immane «Ricerca del tempo perduto» per la prima. Il gioco di confondere le carte tra realtà credibile e realtà incredibile, tra «novel» e «romance» portò nei decenni a solennissime sbandate in qua e in là: tutta la narrativa cosiddetta «postmoderna» pende sfacciatamente dalla parte del «romance», mentre tutto ciò che più o meno a diritto dichiara di ispirarsi al «new journalism» in generale e a «A sangue freddo» di Truman Capote in particolare pende pretenziosamente dalla parte del «novel», se non addirittura della cronaca.

Ma nel titolo vi avevamo promesso una recensione, non un saggio: e ci arriviamo, infatti. Ancora un momento. Dopo la svolta del millennio gli sbandamenti in qua e in là non sono mancati; al momento, in quel piccolo orticello che è la narrativa di lingua italiana, l’eredità dell’anglosassone «new journalism» e della francesissima «autofiction» (da pronunciarsi, dunque, francesissimamente, «otofisiò», facendo uscire la «ò» dal naso) si sono bellamente mischiate, producendo narrazioni in cui un personaggio che per certi versi è l’autore stesso (ne porta il nome, per esempio, ne condivide la posizione sociale ecc.) e per certi versi non lo è (perché la sua vita non corrisponde esattamente a quella dell’autore) ci racconta una storia non solo in forma d’inchiesta ma che addirittura un’inchiesta veramente è, e ci propone fatti realmente accaduti, estratti di atti giudiziari, documenti a profusione e così via, il tutto inestricabilmente mischiato con qualcosa che non può essere che invenzione, benché non ne abbia l’apparenza né vi siano segni testuali che aiutino a distinguere. Ottimo esempio – anche nel senso dell’ottima fattura e qualità – ne è il recente «La città dei vivi» di Nicola Lagioia, nel quale un certo «Nicola Lagioia» indaga, con forte sentimento etico e civile, su un terribile delitto. All’estremo opposto, e qui cominciamo ad arrivare al dunque, potremmo collocare l’opera narrativa di Ermanno Cavazzoni, che negli anni ha pubblicato una quantità di opere che – come il «Breve trattato sui picchiatori nella Svizzera italiana degli anni Ottanta» di, o forse più esattamente a cura di, o forse ironicamente presentato come a cura di, Manuela Mazzi – strizzano addirittura l’occhio al genere trattatistico ma racchiudono materie narrative quanto mai fantastiche: valga per tutte la «Storia naturale dei giganti», dove di biologia, di fisiologia, di etologia dei giganti si ragiona, ma adoperando come fonti scientifiche nient’altro che gli antichi cantari, i poemi cavallereschi, i «romance» in prosa e in verso che dei giganti narrano le fantastiche avventure.

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E proprio Ermanno Cavazzoni firma la sentitissima «Postfazione» che chiude il «Breve trattato»: ma ci arriviamo. Cominciamo invece dalla «Introduzione», che è firmata da Giulio Mozzi, scrittore a sua volta – d’impianto, almeno in apparenza, solidamente realistico – e curatore della collana ‘fremen’ dell’editore Laurana nella quale il trattatello è pubblicato: «Introduzione» nella quale il Mozzi racconta di aver conosciuto un dì la Manuela Mazzi, e che un altro dì la Manuela Mazzi stessa gli avrebbe sottoposto un fascicoletto, un testo incompiuto – a firma di Davide Tosetti, giornalista elvetico recentemente scomparso. Il Tosetti, a detta della Mazzi, avrebbe dedicato gli ultimi anni della sua vita a raccogliere, per raccontarle, le storie di certi giovinotti dalla sberla facile vissuti in terra ticinese; perché fosse da quelle storie così caparbiamente affascinato, non era dato sapere; fatto sta che, defunto il Tosetti, il direttore di «TicinoSera», Orazio Cavadini, aveva consegnato la cartelletta con le carte, le interviste, i ritagli di giornale e tutto il resto appunto alla Manuela Mazzi (giornalista anch’essa; che peraltro mai aveva avuto occasione di conoscere personalmente il Tosetti, pur avendone sentito assai parlare come di professionista scrupoloso e sicuro): pregandola, se ne avesse avuto voglia, di completare l’opera dello scomparso.

E dunque il testo che leggiamo è un testo originariamente scritto da Davide Tosetti, nel quale ha rimesso le mani la Mazzi: per riordinare e mettere in bella copia, senz’altro, ma anche per incrementare, integrare, implementare. Peccato però che lo stesso Mozzi, nella citata «Introduzione», già lui insinui il dubbio: che in realtà di questi testi l’autrice sia la Mazzi stessa. Troppi i testimoni perduti: il Tosetti andato all’altro mondo, «TicinoSera» dalle pubblicazioni interrotte, l’Orazio Cavadini sconosciuto a Google, eccetera. D’altra parte, una cospicua sezione del «Breve trattato» è costituita da estratti e citazioni da articoli di giornali la cui reale esistenza – ma non di tutti – il lettore o la lettrice più meticolosi potranno pazientemente accertarsi. La «Postfazione» del Cavazzoni, mentre si fa indubbiamente, e indubitabilmente, garante della qualità letteraria dell’opera, non altrettanto indubbiamente e indubitabilmente, vista la storia letteraria del Cavazzoni stesso, e il curioso rapporto con la realtà che sembrano avere le sue opere, può garantire della reale sussistenza dei fatti narrati nel «Breve trattato», del Tosetti e del Cavadini, ma in fondo in fondo neanche della Manuela Mazzi (e non sono mancati, benché pochissimi, i lettori maliziosi che hanno visto nell’assonanza cognominale Mazzi/Mozzi non un semplice caso, ma una spia – di profonda complicità, se non addirittura di identità personale: cosa quest’ultima che noi, avendo fortunatamente pratica d’amicizia tanto con la Mazzi quanto col Mozzi. possiamo serenamente smentire).

E dunque? E dunque, il «Breve trattato» è un libretto – il diminutivo è per la piccola dimensione, vieppiù esibita dal piccolo formato della collana – di piacevolissima lettura, rudemente romantico, per nulla idealizzante, occasionalmente divertentissimo, spiritoso il giusto; in cui la finzione di verità arriva all’apice proprio nelle ultime pagine, dove le parole cedono la parola ai numeri, e una serie di tabelle ci propone una tassonomia delle gang di picchiatori, una classifica della loro cattiveria, una mappatura delle risse piccole, medie e gigantesche, e così via. Tutto quell’ambaradàm grafonumerico con il quale solitamente la pubblicistica tenta di suffragare le opinioni che più o meno destramente e faziosamente sostiene, proposto qui proprio come sfida, e spassosissima sfida, alla volontà del lettore di «credere» al racconto, sospendendo la propria «incredulità», almeno per il tempo della lettura.

Che altro dire? La pubblicazione del «Breve trattato» ha messo a subbuglio la Svizzera italiana, i cui giornali le cui radio le cui televisioni hanno dedicato grande spazio sia al libro sia al «tema» dei picchiatori – precipitando, e forse anche facendo precipitare con sé il libro della Mazzi (ma non è cosa di cui indignarsi, e nemmeno da spiacersene) – in una specie di collettiva *mise en abyme*: una narrazione inventata, così inventata che nemmeno si può parlare con certezza di chi la scrisse, ma ovviamente con qualche aggancio sia pur ambiguo con la realtà, diventa tema sociale: tema del quale la narratrice, o forse solo collettrice, di storie viene convocata a parlare nella qualità, come oggi s’usa, di «esperta». Come se, per dire, dopo la lettura dei «Promessi sposi» si convocasse il buon Manzoni a teologizzare «da esperto» sulla Divina Provvidenza.

Estremo messaggio al lettore: il Breve trattato sui picchiatori nella Svizzera italiana degli anni Ottanta, di Manuela Mazzi, è un libro che si può leggere con piacere e profitto; oseremmo dire: è un libro da leggere, e che ti darà piacere e profitto. E, per goderlo e apprezzarlo, non è minimamente necessario essere svizzeri (mentre, va detto, è utile – benché non indispensabile – avere qualche memoria degli anni Ottanta: il punk, i paninari, quella roba là). Cordiali saluti.

Recensione di Ennio Bissolati

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