BUIO A MEZZOGIORNO, di Arthur Koestler
Recensione 1
Ambientato nell’Unione Sovietica degli anni 30, Buio a Mezzogiorno racconta la storia di Rubasciov, funzionario di partito che viene arrestato con l’accusa di essere un controrivoluzionario; mentre è in prigione, in attesa di un processo nel quale lui per primo non crede, sotto il pressante e spietato interrogatorio del Funzionario Gletkin, il protagonista ripercorre tutta la sua vicenda umana e politica, analizzando i singoli eventi che l’hanno condotto fino a quel momento e giungendo a una incredibile conclusione.
Quintessenza della coscienza politica del XX secolo, Buio a Mezzogiorno, la cui trama è fittizia ma verisimile, è il racconto di un inevitabile conflitto, che si anima su più piani, tra due mentalità e due visioni; su quello ideologico, prima di tutto, perché tanto Rubasciov che il suo accusatore Gletkin incarnano due visioni di fedeltà all’Ideale Rivoluzionario, nei quali entrambi credono ciecamente ma mentre il primo rivendica la sua libertà di esprimere una volontà e quindi di criticare le scelte del partito affinché l’Ideale sia preservato, l’altro, per la stessa ragione, nega che vi sia spazio per una libertà individuale pur esigendo dall’avversario una resa “volontaria” e un’accettazione della condanna.
L’altro piano sul quale vive lo scontro tra i due personaggi è quello generazionale: il protagonista incarna il Rivoluzionario che ha coscienza del passato, perché sa dove la Rivoluzione, della quale è stato uno degli autori, affonda le sue radici e sa riconoscere le tracce di quel passato anche nel suo presente, mentre Gletkin è il perfetto esempio della generazione successiva, che vive la Rivoluzione non come una conquista – è troppo giovane per avervi preso parte – ma come un Dogma, un culto da officiare e non una creatura da nutrire e guidare; in questo contesto, la veridicità o meno delle accuse rivolte a Rubasciov ha poca importanza.
Nel romanzo di Koestler la trama è scarna fino a risultare povera di avvenimenti proprio perché allo scrittore non interessa narrare una storia ma descrivere il legame che si viene a creare tra Rubasciov e Gletkin, tra la vittima e il carnefice, il gatto e il topo impegnati in uno spietato gioco alla fine del quale è il topo che accetta il gioco del gatto, invece di sottrarvisi
Opera di denuncia ma anche un forte invito alla riflessione sull’eterno tra ideale e sua messa in pratica, tra Ragione di Stato (o di Partito) e dignità del singolo, Buio a Mezzogiorno è un romanzo denso di rimandi filosofici, esposti con una prosa fluida, elegante e severa nella quale si riconosce una lontana eco di Kafka e ha il grande pregio di stimolare i pensieri senza annoiare il lettore: consigliato a chi cerca impegno e ampie possibilità di dibattito.
Recensione di Valentina Leoni
Recensione 2
Chi è Nicola Salmanovic Rubasciov? E’ colui che rappresenta e racchiude in sé e nel proprio destino tutti coloro che furono vittima dei cosiddetti “processi di Mosca”, con i quali Stalin si sbarazzò della vecchia guardia rivoluzionaria e consolidò in modo sempre più inattaccabile la propria dittatura assoluta. Così facendo portò però molti comunisti, tra cui lo stesso autore, ad allontanarsi dal Partito e dalla degenerazione del sistema staliniano.
Non dobbiamo però credere che questo sia un romanzo anticomunista e antirivoluzionario: esso è piuttosto una riflessione sul divario tra l’aspirazione alla realizzazione utopica e le conseguenze negative che possono derivare dall’uso improprio del potere.
Rubasciov, insieme all’attuale leader del Partito, il cosiddetto N.1, fa parte della vecchia guardia di teorici della rivoluzione e filosofi militanti che sognavano di conquistare il potere per poterlo abolire e di governare il popolo per togliergli l’abitudine di essere governato. Di essa rimane solo lui, gli altri sono stati tutti eliminati. Ora è arrivato anche il suo turno di essere giudicato e accusato dell’unico crimine che il Partito conosce, cioè l’allontanarsi dal corso stabilito, e di essere sottoposto, se ritenuto colpevole, all’unico castigo che il Partito conosce: la morte.
Rubasciov conosce benissimo i criteri con cui sarà giudicato: sa che per il Movimento il problema della buona fede soggettiva è privo di qualunque interesse. Chi sbaglia deve pagare; chi ha ragione sarà assolto. E’ la legge del Credito Storico: la Storia si serve in ugual modo della verità e della menzogna, è indifferente alla virtù e lascia i crimini impuniti. Ma l’errore ha sempre le sue conseguenze che si ripercuotono senza pietà sulle generazioni future; pertanto bisogna fare di tutto per evitarlo e distruggerne il seme. Eppure, si chiede Rubasciov, come può il presente decidere ciò che in futuro verrà giudicata verità? Alla fine ci si è basati sulle deduzioni logiche, ma benché ci si sia mossi tutti dalla stessa linea di partenza, si è giunti a risultati divergenti. Infine si è dovuti ricorrere alla fede, la fede assiomatica nella giustezza.
Dopo giorni di isolamento, le riflessioni di Rubasciov vengono interrotte dal colloquio Ivanov, suo vecchio amico e compagno, al quale è stato affidato il ruolo di inquisitore nel suo suo interrogatorio. Ivanov spiazza completamente Rubasciov dichiarando di non volergli estorcere una confessione con la violenza, ma ottenerla con la dimostrazione logica e razionale del fatto che la sua condotta individuale ha nuociuto alla causa universale del Movimento. Inizialmente Rubasciov si ribella alla sola idea di una simile capitolazione, ma l’avversario gli concede dieci giorni per riflettere dichiarandosi convinto che allo scadere del tempo concesso lo stesso Rubasciov capirà la necessità logica di una piena ammissione di colpevolezza.
Allo scadere dei dieci giorni, durante una lunga conversazione notturna, Ivanov riesce, con il ragionamento logico, a convincere l’antico compagno, che da quel momento si ritroverà alleggerito di un peso grandissimo e si dedicherà alla stesura della sua confessione che prenderà il volto di una riflessione sulla “maturità delle masse” e nella quale spiegherà il movimento pendolare che la Storia mostra di avere, oscillando sempre dall’assolutismo alla democrazia e dalla democrazia alla dittatura assoluta. In questa confessione egli coglie l’occasione per giustificare le proprie azioni e affermare la propria totale buona fede:
Ma per il nuovo inquisitore che sostituirà Ivanov, liquidato in quanto non più in linea con le attuali direttive del Partito, questo non sarà abbastanza: pretenderà da Rubasciov la piena confessione di aver agito, non importa se a ragione o torto, intenzionalmente o meno, contro il Movimento, dando ascolto al proprio io individuale, al proprio giudizio e alla propria coscienza ponendoli erroneamente al di sopra del grande Piano Rivoluzionario in corso e sottoponendosi così a sua volta alla legge del credito storico da lui stesso proclamata e alla sua condanna inesorabile: la morte.
Rubasciov e la sua corrente antirivoluzionaria sono stati battuti e disfatti. Nel momento in cui il Partito doveva essere unito per scoraggiare un’imminente guerra civile, hanno creato una frattura in Esso. Se il suo comportamento è stato in buona fede e il suo pentimento è sincero come egli stesso afferma,allora egli deve aiutare a sanare questa frattura: poichè la politica dell’opposizione si è dimostrata l’errore, il suo compito sarà rendere l’opposizione spregevole, fare capire alle masse che l’opposizione è un delitto e che i capi dell’opposizione sono dei criminali.
Questo è l’ultimo servizio che il Partito gli chiede. Rubasciov ha agito e pensato come doveva, di questo è convinto. Ha avuto torto, ha sbagliato, deve quindi pagare. E lo farà interpretando fino in fondo il ruolo di criminale nel pubblico processo di cui sarà protagonista, ligio al principio secondo cui ogni individuo è del tutto sacrificabile per il bene del Movimento.
Soltanto nel momento in cui, solo con se stesso, si incammina verso la propria morte, permette al dubbio di farsi strada nella propria mente e prende in considerazione l’idea che in fin dei conti ci sia veramente un errore nel sistema, e che questo errore sia proprio il precetto, da lui finora sempre considerato incontestabile, e in nome del quale aveva sacrificato gli altri ed ora egli stesso veniva sacrificato: il precetto per cui il fine giustifica i mezzi. “Era questa in fin dei conti la frase che aveva ucciso la grande fraternità della Rivoluzione e gettato tutti allo sbaraglio.”
Concludo qui questa lunga recensione che ugualmente ritengo purtroppo non del tutto soddisfacente: una volta terminata ne ho eliminate parecchie parti per il timore di essere entrata troppo nei particolari e di risultare quindi eccessivamente pesante. Mi rendo conto però di aver dovuto tralasciare in questo modo considerazioni e passaggi che mi sembrano invece di grande importanza, e di non aver approfondito n maniera adeguata un argomento veramente vasto e profondo per il quale nutrivo scarso interesse e che invece leggendo quest’opera ho trovato a dir poco entusiasmante.
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