CANNE AL VENTO, di Grazia Deledda
Recensione 1
“…non amo neppure tornare laggiù, mi pare che ci ho lasciato qualche cosa e che non la ritroverei più”.
Cosa ha lasciato la Deledda emigrando dalla sua terra? Cosa le pare di non ritrovare più?
L’anima dei grandi silenzi e la natura aspra e selvaggia laddove i colori, già dagli albori, tingono di ampie pennellate l’orizzone, in cui il cielo e la terra sembrano due specchi che si riflettono nel sorriso dei fiori ombreggiati dalle fronde e nel pianto delle stoppie inaridite dal sole ardente.
I racconti fantastici narrati dalle voci di avi, il fruscio notturno dei folletti fra le canne, le ombre fuggenti delle anime vaganti, l’ondeggiare delle fate che si aggirano fra le grotte di granito rischiarate dalla luna: grande palla argentea adagiata in un cielo coperto da un manto di velluto nero. L’imponenza delle montagne primitive dai versanti voluttuosi e rapaci.
Ed ancora, l’irrompere di vita e di gioia delle feste popolari. I colori vividi dei costumi paesani, il rosso di scarlatto, il giallo delle bende, il cremisi ardente dei grembiali brillanti come macchie di fiori tra il verde dei lentischi e l’avorio delle stoppie.
Tutto questo le pare di non ritrovare. Ed è chiaro, infatti altro non è che l’elaborazione edulcorata di ricordi lontani, introvabili nella concretezza del vissuto quotidiano.
Ed è in questa potenza descrittiva in cui i paesaggi naturali luccicano come gemme preziose e gli scenari di vita popolare sembrano usciti da un mondo incantato, frutti succosi che seguono il filo della memoria, che la Deledda colloca la sua storia, posiziona i suoi personaggi, – compaesani ramificati – sagome grigie, cristallizzate nei confini delle loro debolezze umane, piegati dalla sorte e restii a contrastare il vento, vittime della volontà di un dio fatalista.
Figure esili che si stagliano fra i raggi divini e l’immensa distesa della terra: potenza generatrice di amori e dolori, di vita e di morte, in un gioco ciclico continuo.
Ruotano in questo sfondo profumato di poesia le sorelle Pintor, nobildonne prigioniere nel loro castello in rovina, vittime di un incantesimo che le vuole ancorate a un malincono passato; il servo Efix, personaggio chiave del romanzo, figura d’amore e devozione; Giancinto, il nipote “continentale”, figlio della più piccola delle sorelle Pintor, sfuggita al sortilegio sfidando la sorte; l’usuraia Kallina dagli occhi rapaci e la vecchia Pottoi dal collo scarno tutt’uno con l’oro e le gemme che lo ingioiellano.
E ancora Don Predu, il Rettore, i mendicanti, la Madonna del Rimedio, la statua della Maddalena, Dio e la Misericordia, le febbri della malaria, l’umile e sporca miseria e la spavalda tintinnante ricchezza e un nugolo imprecisato di rovine di uomini e cose.
Nel romanzo della Deledda non ci sono né eroi, né eroine, soltanto “i vinti” verghiani, ridipinti in un grande affresco di colori vividi, brillanti e magici – affresco che riscatta la povertà delle scene di un’umanità grigia e primitiva e dell’inutilità delle cose – incorniciato dal nostalgico richiamo della terra natia le cui radici sono ramificate nella brillante memoria della scrittrice sarda, donna rivoluzionaria che è stata capace di spezzare l’incantesimo in nome di una verità non solo letteraria.
“La vita passa e noi la lasciamo passare come l’acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca”
“Siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.”
Recensione di Patrizia Zara
Recensione 2
“E come i bambini ed i vecchi si mise a piangere senza sapere il perché – di dolore ch’era gioia, di gioia ch’era dolore”
Il mondo è fermo o il mondo si muove? Oppure quello fermo e quello in movimento sono due mondi diversi? E cosa accade quando si incontrano? Questo sembra domandarsi la Deledda in questo romanzo scritto magistralmente. D’altra parte non devo certo dirvelo io, siamo di fronte a un premio Nobel.
Un paesino dell’entroterra sardo, una famiglia ricca e potente ormai decaduta – i Pintor – tre sorelle – le dame Pintor, appunto – ormai rassegnate allo sfiorire dei propri averi e della propria giovinezza. E una quarta sorella – Lia – fuggita per “prendere parte alla festa della vita”: si è sposata, ha avuto un figlio e poi è morta seguendo lo stesso destino del padre, distrutto dallo scandalo (o almeno, così pare…).
Prima di tutto, un mondo ancestrale, immobile, dalle regole immutabili. Che però brama e allo stesso tempo teme, ama e allo stesso tempo odia, è attratto e respinto. Da cosa? Dal suo esatto contrario: dalla “vita”, da quella modernità che Lia ha cercato a tutti i costi, quel mondo in perenne movimento, non importa in che direzione.
E il frutto del peccato di Lia ad un certo punto irrompe nel villaggio: e lo ammalia, lo scuote, lo percuote, ne viene respinto, si adatta ai suoi imperativi.
Non vi anticipo chi sarà il vincitore, e se ci sarà un vincitore, tra antico e moderno. Ma vi consiglio di tenere d’occhio Efix, personaggio a mio parere memorabile. Perché le irresistibili forze della storia e del destino governano la vita degli uomini, è innegabile; ma c’è sempre spazio per la vicinanza e l’empatia dell’uomo nei confronti del suo simile.
Efix è un uomo che ha conosciuto da vicino il male, antico o moderno che sia, e non vuole più saperne niente, e fa di tutto per espiarlo. E nel suo percorso di espiazione coinvolge via via molti altri, e diverse volte si dice – e gli dicono – che lui “è un uomo”, e non si tratta certo di machismo. Il punto è restituire all’uomo la capacità e la volontà di autodeterminazione che quell’essere “canna al vento” gli nega.
Un’opera complessa, con tante diverse sfumature (e forse tante diverse possibili interpretazioni), ma comunque sempre piena di suggestioni, sensibilità e amore della Deledda per la sua terra. Una lettura piacevole, che vi consiglio.
CANNE AL VENTO Grazia Deledda
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