CAVALLI SELVAGGI, di Cormac McCarthy (Einaudi)
Recensione 1
Da molto tempo un’amica mi aveva prestato il grosso volume contente la Trilogia della frontiera, che rimaneva lì in attesa di essere preso in mano. Ma in questo periodo trovavo abbastanza scomodo leggere un libro così grosso e non mi decidevo. Finalmente ho trovato il coraggio e mi sono trovata a leggere il primo dei tre romanzi della trilogia proprio in concomitanza con la morte dell’autore, che avevo apprezzato tantissimo leggendo il distopico La strada.
Cosa dire di questo libro? Premetto che non sono una lettrice che ama leggere storie dalle tinte western ambientate nel selvaggio paesaggio americano ma questo libro mi ha affascinata. E’ la storia di John Grady Cole che insieme all’amico e cugino Rawlins lasciano la casa di famiglia ed in sella ai loro cavalli partono per un viaggio che li porterà dal Texas nei territori aspri dei monti messicani, in cui vivranno a stretto contatto con una natura selvaggia e faranno incontri che condizioneranno la loro vita e che li cambieranno per sempre.
Bellissimi alcuni passaggi che valgono da soli la lettura del libro; l’ultimo colloquio tra padre e figlio prima della partenza e quello con il giudice quasi alla fine del libro ma soprattutto il dialogo o meglio il monologo della zia di Alejandra, la ragazza di cui John si è romanticamente innamorato. Qui la donna, per convincere il giovane che non potrà esserci niente tra lui e la nipote, racconta momenti della sua vita, cominciando dalla descrizione del Messico di un po’ di anni prima “Quand’ero giovane la miseria di questo paese era terribile…… Nei villaggi c’erano botteghe in cui i contadini affittavano i vestiti per andare al mercato….. La famiglia media non possedeva nessun oggetto industriale salvo un coltello da cucina…… Però quella gente non era stupida…….Bastava vedere i bambini. Avevano un’intelligenza spaventosa.
E una libertà che noi invidiavamo” E qui parla della sua condizione di giovane intelligente ed idealista, costretta a vivere in una società in cui la donna non contava niente. E parla del suo rapporto con i due fratelli Madero, Francisco che diventerà per poco tempo presidente del Messico e Gustavo di cui si innamorerà e che l’aiuterà a superare la discriminazione sofferta per una menomazione alla mano in un incontro che segnerà la sua vita :”Molto prima dell’alba compresi che stavo cercando di mettere a fuoco una cosa che sapevo da sempre, ossia che il coraggio è una forma di costanza e che per prima cosa il codardo abbandona sempre se stesso. In seguito tutte le altre viltà vengono da sole”. E gli parla di responsabilità e della convinzione di poter controllare anche il caos.
Uno splendido romanzo di formazione scritto in maniera stringata ed asciutta ma pieno di una profondità di pensiero e di emozioni da fare tremare.
Presto leggerò il secondo volume della trilogia “Oltre il confine”, certa che Mc Carthy non mi deluderà.
Recensione di Ale Fortebraccio
Recensione 2
McCarthy ha il potere di suscitarmi reazioni diverse e contrastanti.
Non amo affatto la marea di dettagli con cui descrive ciò che accade, e anche quello che non accade. Mi sento soffocare in quello spezzettamento sistematico del gesto, in quella sovrabbondanza di riflessi gestuali, di oggetti scandagliati fino alla loro essenza, del descrivere se il coltello ha o meno un manico fruibile, se la frusta ha la punta logora. Non mi sembrano necessari, non mi restituiscono nulla. Poi però lui, come credo nessun altro, estrae da questo magma del reale, da questa immersione in una concretezza trascolorante come quella di un caleidoscopio, brandelli lucenti di poesia, voci e cori dalla dolcezza imprevedibile. I suoi personaggi, le colline i cavalli, tutto diventa un’orchestra capace di rimandare la voce del deserto, del caldo, di vite rovinate dalla miseria e dall’apatia dei silenzi della mesa. Un mondo in cui il padrone non ha rimorsi e non gli compete averne, i contadini e i sottoposti di ogni tipo sono vittime sfruttate da un sistema e dalla propria accettazione dello stesso. E fra un dettaglio e un altro, fra un sigaro acceso e una briglia raccolta da terra, l’autore tesse una trama di desolazione esistenziale, di solitudine assoluta, da cui si erge in lontananza la dignità di un paese ferito e il suo strato sociale più abbandonato.
McCarthy parla all’anima attraverso la materia, una delle cose più difficili da fare. Scava nei personaggi senza mai descriverli, ti fa sentire caldo, ti fa sentire freddo, ti fa bruciare gli occhi per il rogo del tramonto dietro le colline, ti fa sentire esausto perché ferito con tre giorni di cavallo sulle spalle.
Ti butta dentro quello che leggi senza mediazioni. Può piacere o no, ma è difficile sottrarsi al suo fascino.
Recensione di Marita Cavallari
Recensione 3
“Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore”
Cavalli Selvaggi è uno dei grandi lasciti letterari di Cormac McCarthy, un romanzo che, non solo riscrive il genere western e l’idillio della frontiera, ma anche e soprattutto un romanzo di formazione ante-litteram sull’ineluttabilità del destino umano.
Siamo nel 1949, in Texas, John Grady apprende, dopo la morte del nonno, che il ranch dove vive sarà messo in vendita. Decide così, insieme all’amico Rawlins, di recidere qualsiasi vincolo con la natia terra e di cavalcare verso la frontiera per raggiungere il Messico. Da questo momento una serie di avvenimenti drammatici segneranno per sempre la vita del protagonista.
McCarthy cesella una meraviglia dietro l’altra: la storia è quanto mai avvincente, la fantasia dell’autore è un “cavallo” che corre a briglie sciolte, la scrittura è tesa, nervosa con quell’originalissimo uso del dialogo interconnesso alla narrazione senza soluzione di continuità. Ma la vera meraviglia di questo romanzo sono gli intermezzi descrittivi dedicati alla natura, ai paesaggi, alle albe e ai tramonti, agli animali. Mccarthy è uno scrittore dannatamente cinematografico, ma la sua visione naturalistica è quanto mai prossima al sapore della fotografica di una pellicola di Terrence Malick. E’ una fotografia immersiva, in cui si percepiscono i profumi e i rumori. Avete mai visto “I Giorni del Cielo”? Ecco sembra di essere lì, dentro il film, dentro la narrazione, in quei vasti campi di grano texani arsi dal sole, scricchiolati dal vento e pronti ad essere mietuti.
Infine i cavalli, i veri protagonisti del romanzo servono proprio a questa immersione totale. Ma non solo: il cavallo è l’antitesi dell’hobbesiano universo descritto, è un simbolo di rivalsa, di libertà, di quel mondo antico che John Grady sogna e invano cerca, ma che non trova perché purtroppo non esiste più.
Recensione di Giorgio Sala
CAVALLI SELVAGGI Cormac McCarthy
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