CORRI, CONIGLIO, di John UpdJike
Un giorno gli capita casualmente di giocare con dei ragazzini e quell’episodio, apparentemente insignificante, provoca in Coniglio una profonda crisi: come se un velo gli fosse caduto dagli occhi, vede la sua vita monotona, soffocante, piena di cose che non lo soddisfano, accanto a persone, in primis sua moglie, per le quali prova solo fastidio.
Racconto esistenziale nel quale Updike, senza sentimentalismi, racconta l’epopea di un uomo in fuga: una sorta di Holden Caulfield fuori tempo massimo, che non ha davvero la forza per voltare pagina e può solo correre, senza però arrivare da nessuna parte.
L’autore riesce a rendere il disagio esistenziale di Coniglio con lunghi paragrafi di discorso indiretto libero, attraverso i quali il lettore entra nella mente del protagonista, riuscendo a coglierne il profondo egoismo e la mentalità infantile, ma senza poter evitare di compatirlo e in fondo, anche di parteggiare per lui.
Il resto del romanzo è occupato da descrizioni oniriche ed evocative dell’America degli anni 50, di uno stile di vita dominato dal conformismo e dal materialismo, verso cui l’autore si mostra critico; mentre lo stile della prosa, che deve non poco a Kerouac, è essenziale, con pochi, secchi e brevi dialoghi di taglio quasi cinematografico.
Un romanzo “difficile”, che mette a disagio il lettore tramite lo stile e il ritmo sregolato, ma capace di inchiodarlo alle pagine come ipnotizzato: da leggere se amate la letteratura americana e i romanzi nei quali l’introspezione psicologica conta più della trama.
Recensione di Valentina Leoni
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