Elizabeth Finch, di Julian Barnes (Einaudi – gennaio 2024)
«Le cose sono di due maniere; alcune in potere nostro, altre no. E imparare a distinguere le une dalle altre, e renderci conto che non possiamo modificare ciò che non è in nostro potere, e accettarlo, ci conduce a un’adeguata comprensione filosofica della nostra vita».
Che gioia, il ritorno di Julian Barnes. Quale immenso piacere, farsi trovare nuovamente pronti a fare due cose, su tutte: lasciarsi condurre per mano attraverso secoli di storia, per far ritorno all’oggi e farsi travolgere da un mare di domande, di dubbi, di quesiti irrisolti.
Spesso è proprio la commistione fra questi due fattori (la certezza – quella derivata dalla veridicità storica di fatti, date, documenti – e l’incertezza, il punto di domanda, il dubbio che accompagna l’esistenza, la filosofia), a caratterizzare i libri dello scrittore inglese.
Persino le virgole sembrano appoggiate con cura sulla pagina. Una scrittura perfetta, che trasuda sapienza, rigore, precisione storiografica ma che sa essere al tempo stesso calorosa, avvolgente e passionale, come poche.
Un altro libro che “mi scappa di mano” (ancora e sempre, grazie Nadia Terranova, per questa illuminante definizione). Uno di quei libri che “trasformano chi li scrive e poi chi legge in un modo misterioso e inafferrabile”.
Come già ne “Il senso di una fine”, lo struggente capolavoro di Barnes, in “Elizabeth Finch” il narratore si ritrova per le mani un’eredità. Neil, il «Re dei Progetti Incompiuti», si ritrova per le mani appunti, diari, documenti, una lista di letture lasciategli da Elizabeth Finch (nel romanzo, semplicemente EF), sua ex docente in un corso per studenti adulti, intitolato “Cultura e civiltà”.
Scavando fra i ricordi, nitidi e indelebili, dei momenti trascorsi in aula ad osservare, incantato, questa affascinante e determinatissima donna (Neil ha amato EF?); ricostruendo ogni singola occasione di incontro negli anni a venire, ogni confronto, ogni pranzo insieme (amore platonico, il loro?), Neil si accinge dunque a portare a termine il lavoro di EF: un libro sull’ultimo Imperatore pagano dell’Impero Romano, Giuliano l’Apostata. Ovvero su quel preciso, lontanissimo momento in cui, se gli avvenimenti avessero preso una piega diversa, se Giuliano non fosse capitolato in battaglia, il cristianesimo non si sarebbe imposto come unica religione e sarebbe, di certo, cambiata per sempre la Storia dell’umanità intera, per come la conosciamo oggi.
«Esaudire i desideri dei morti. Naturalmente, noi i morti li onoriamo, ma così facendo, in qualche modo li rendiamo ancora più morti. È esaudendo i loro desideri che li riportiamo in vita. Ha un senso? Era giusto che volessi esaudire i desideri di EF, e giusto che intendessi mantenere la promessa».
Scrive Roth, in uno dei momenti cruciali di “Pastorale Americana”: «Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite…. Beh, siete fortunati».
La memoria. Il ricordo. La testimonianza. È come avere per le mani un documento, una carta d’identità appartenuto ad una persona a noi cara, che ora non c’è più.
E dunque le domande, dicevamo. I quesiti irrisolti, i dubbi. Dopo la cavalcata nella storia, il ritorno all’oggi, alla luce di nuove incertezze, alle prese con una svolta, una rivelazione.
Cosa potremmo mai farne, di quel ricordo, di quel documento? Cosa possiamo raccontare della persona che abbiamo amato? Come possiamo mettere insieme i pezzi, ogni singola parte di ciò che è stata, ciò in cui ha creduto, ciò per cui ha lottato, i suoi successi, i suoi fallimenti, per costruirne un racconto, un profilo, da consegnare agli altri? Ma soprattutto, possiamo davvero dire di averla conosciuta, questa persona? Di averla veramente capita?
E se mai decideremo di portarlo a termine, cosa ne sarà di quel lavoro, di quel libro, di quel ritratto?
Le cose sono di due maniere, come insegna EF, teniamolo bene a mente: alcune in potere nostro, altre no…
Julian Barnes
“Elizabeth Finch”
Einaudi.
Recensione di Valerio Scarcia
Recensione 2
L’Elisabeth del titolo è una professoressa che tiene un corso per adulti chiamato Cultura e civiltà, con un’attenzione particolare al conflitto tra la filosofia greco-romana e quella cristiana. Neil, il narratore, è il suo allievo entusiasta, anzi, letteralmente estasiato dal suo rigore intellettuale e dal suo autocontrollo. Che tipo di passato e di vita interiore hanno prodotto, si interroga, la persona che è attualmente? Alla sua morte, quasi due decenni dopo il corso, ha l’opportunità di scoprirlo: sebbene la loro relazione, dopo la fine del corso, fosse limitata a pranzi occasionali, lei gli ha lasciato in eredità la sua biblioteca e i suoi appunti personali. Le indagini di Neil lo portano in profondità nella vita dell’imperatore romano Giuliano l’Apostata, oggetto degli studi di Elisabeth Finch, e la sezione centrale del libro è interamente occupata da un saggio su quest’ultimo, con alcune parti morbosamente noiose (e lo dice uno che pure ha una certa familiarità con l’argomento).
Se tutto questo renda Neil una persona migliore è una questione aperta; si autodefinisce il re dei progetti incompiuti, menziona due divorzi, ma le ex, e le ragioni delle separazioni, restano del tutto fuori campo e senza dubbio Barnes desidera chiaramente elevare Elizabeth a un ruolo di leadership morale.
Lo scrittore britannico rende tutto questo con la grazia e l’equilibrio che lo contraddistinguono (non ha torto è ritenuto uno dei massimi scrittori contemporanei) ma ad un livello non eccelso; la storia ha pochi fuochi d’artificio o colpi di scena e alla fin fine Elizabeth è sì un personaggio intrigante, ma viene da chiedersi se Barnes, come Neil, non le abbia dato più importanza di quanta ne meriti.
Recensione di Moreno Migliorati
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