Eneide, di Publio Virgilio Marone
Non ho assolutamente intenzione di salire in cattedra per l’Eneide. Non ci penso proprio. Desidero solo condividere con voi la mia passione per i grandi classici antichi (greci e latini).
Dopo Iliade, Odissea e Argonautiche (quest’ultima rientra nella mia personale top 10), mi mancava ancora questo grande poema epico, e il 2021 è iniziato proprio con lui. Ho scelto una vecchia edizione Mursia, con la traduzione in poesia di Guido Vitali e note (sia al testo latino che al testo italiano) di Ezio Savino. L’avevo vista sola soletta in libreria anni fa, nessuno la voleva: era vecchia, opaca, rovinata. Ho deciso di adottarla, nonostante edizioni nuove di zecca e sbarluccicanti mi facessero l’occhiolino (delle quali una è stata comunque comprata per paragone, ma accantonata). La mia “vecchietta” mi ha regalato bellissimi momenti insieme.
La storia è nota: i Greci dopo 10 anni di guerra riescono finalmente a penetrare le mura di Troia con lo stratagemma del cavallo di legno (raccontato, tra l’altro, proprio nell’Eneide -non nell’Iliade come molti pensano), incendiano la città e fanno strage. Enea riesce a fuggire con il padre Anchise, il figlio Ascanio (Iulo) e altri troiani profughi. Dopo un lungo pellegrinaggio in mare, durante il quale sbarca anche a Cartagine e incontra la sfortunata regina Didone, giunge finalmente in Italia, nel Lazio, luogo designato dagli dei per la costruzione della nuova Troia (Roma). Qui dovrà affrontare una guerra con i locali, e solo dopo la vittoria potrà pensare a gettare le basi per il nuovo impero.
L’Eneide è stata scritta da Virgilio nel contesto del grande progetto politico, sociale e culturale di Ottaviano Augusto, del cui dominio diventa giustificazione: il mito di Enea e del figlio Iulo (futuro fondatore di Alba Longa e progenitore della gens iulia) crea infatti attorno alla figura dell’imperatore un’aurea nobile e divina e santifica la romanità augustea. Virgilio si rifà ai compositori antichi per la sua grande Opera. Sono particolarmente evidenti i richiami a Iliade e Odissea (tanto che i primi 6 libri dell’Eneide vengono chiamati “odissiaci”, in quanto raccontano la peregrinazione di Enea -anche se non si tratta, come nel caso di Ulisse, di un viaggio di ritorno-, gli ultimi 6 libri “iliadici”, in quanto raccontano la guerra tra i troiani e i latini locali. Enea è l’eroe che concentra e racchiude in sé le caratteristiche sia di Achille che di Ulisse; e l’Eneide stessa è un poema che concentra in soli 12 libri alcune caratteristiche dei 48 totali di Iliade e Odissea. Ma nel poema si avvertono anche i richiami alle Argonautiche di Rodio (nella fattispecie, nell’amore che infiamma la regina Didone si ritrovano gli echi di quello che infiammò Medea per Giasone). Ci sono citazioni anche dalle poesie e liriche antiche, prime fra tutte quelle di Saffo. Insomma, si tratta chiaramente di un’opera colta, ma credo che questo nessuno lo metta in dubbio.
Al di là di queste notizie… io ho goduto enormemente della poeticità del testo, della forza evocativa delle mille-mila immagini seminate nei versi -sì, anche in quelle di guerra, tremende, impietose, devastanti (anche se non così devastanti come quelle dell’Iliade)- della lentezza naturalmente richiesta da una lettura attenta per non perdersi nemmeno una sfumatura (anche se purtroppo sono certa di averne perse, di sfumature). Le emozioni scatenate dalla lettura di questo poema sono innumerevoli: ho perso il conto delle volte in cui ho pianto, ho avuto paura, ho provato rabbia e terrore e schifo e indignazione e speranza.
Quindi, per concludere, vi esorto a non dare per scontati questi testi, a non relegarli nell’ambito “l’ho studiato a scuola, è stato sufficiente”: date loro fiducia, affidatevi alle loro parole, provate a sentire quello che vi stanno raccontando. Sono stati scritti tantissimi anni fa, ma non smettono di incantare, né di essere attuali nelle pieghe delle loro rielaborazioni, personali e non.
V’è un paese che i Grài chiamano Espèria
terra vetusta, fertile e guerriera;
gli Enòtri l’abitarono, ma è fama
che, dal nome d’un re, le nuove genti
or la chiamino Italia. A quella terra
noi tendevamo; ma Orion nemboso
d’un tratto insorse con gran flutti, e in cieche
secche e tra furiosi austri ci spinse;
e per marosi e per impèrvii scogli
ci soverchiò, poi tutti ci disperse:
pochi, a nuoto, giungemmo al vostro lido.
Ma che gente è mai questa? E qual contrada
rozza è così che tal costume accolga?
Su l’arena ci negano un asilo,
e minacciano guerra, e fan divieto
di stare sopra un breve orlo di terra!
Ma se il genere umano e le mortali
armi sprezzate, almen temete i Numi
che son del bene mèmori e del male!
(Libro I; vv 782-800).
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