ESSERE SENZA DESTINO, di Imre Kertész
Prima di tutto devo ringraziare di cuore chi mi ha consigliato questo libro (Corrado Iemma, grazie!).
L’autore, premio Nobel nel 2002, ci racconta di un ebreo quattordicenne, che nel giro di qualche giorno assiste alla partenza del padre per i lavori forzati, egli stesso viene destinato al lavoro obbligatorio presso la Shell e poi prelevato a forza e deportato: Auschwitz, Buchenwald, e poi Zeitz. I fatti, purtroppo comuni a tanti, sono ormai arcinoti e costituiscono uno squarcio insanabile nel cuore dell’umanità.
Però, ogni volta che mi avvicino ad un libro che parla della Shoah, mi colpisce quanto riescano a essere diversi l’uno dall’altro, pur nella stessa tragedia.
I pensieri, le emozioni di un ragazzino, precipitato improvvisamente da una vita comoda e normale a un incubo senza apparente via d’uscita, sono un punto di vista diverso che mi ha colpito e a tratti anche stupito. Come la reazione quasi incuriosita nell’occasione del primo trasferimento a Auschwitz, la novità di sentirsi adulto e indipendente, destinato a un lavoro “da grande” che basta fare bene per non avere problemi.
Atteggiamento che dura a lungo, anche davanti al filo spinato, al fumo dai camini di luoghi non riscaldati, alle camere a gas. E che viene meno solo quando il corpo inizia a cedere; anche in quel caso però non diventa disperazione, ma distacco, un osservare lucidamente le cose per arrivare alla comprensione dell’incomprensibile. Le pagine finali del libro sono paradossalmente più dure di quelle che raccontano gli orrori: la necessità di capire, il rifiuto di vedere la Shoah come un improvviso impazzimento del mondo ma come il risultato di una successione di passi, compiuti da tutti, vittime e carnefici, l’impossibilità di pensare ai perseguitati (e a se stesso) come “semplicemente e nient’altro che innocente”.
Fino alle righe finali, indimenticabili, che posso solo riportare per intero:
” mia madre mi sto aspettando e probabilmente sarà molto felice di rivedermi, la poveretta. Ricordo che un tempo aveva in mente che io diventassi un giorno un ingegnere un medico o qualcosa del genere. Probabilmente succederà proprio come lei desidera;: non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti, c’era qualcosa che assomigliava alla felicità Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli orrori, sebbene per me forse proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro la prossima volta che me lo chiederanno. Sempre che me lo chiedano. E se io a mia volta non l’avrò dimenticata”.
Recensione di Elena Gerla
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