ESTASI E TERRORE. Dai greci a Mad Men, di Daniel Mendelsohn (Einaudi – maggio 2024)
Sarà che lo aspettavo da mesi. Sarà che a breve lo incontrerò di persona in ben due occasioni. Sarà che da tempo riconduco molto di ciò che leggo ai suoi libri e al suo stile. Sarà che finisco spesso a scriverne o a parlarne.
Sarà per una, o per tutte queste ragioni, che uno dei capitoli finali di “Estasi e terrore” – il capitolo dedicato al rapporto epistolare fra il giovane Mendelsohn e la famosa scrittrice Mary Renault – mi ha procurato una forte commozione.
Mi è sembrato di vederlo, questo timido quindicenne, riservato e disorientato, coltivare il sogno di diventare scrittore, di stargli accanto mentre accoglie le risposte della scrittrice che lo ha fatto accostare ai classici e innamorare di Alessandro Magno.
Pare di udirla, a distanza di decenni, quella scintilla nel cuore di uno scrittore non ancora sbocciato.
Arriverà un tempo, molti anni dopo (lo scrittore è diventato famoso e la vecchia amica non c’è più) in cui il cerchio, in qualche modo, si chiuderà. Lo scrittore riceverà a sua volta una lettera da parte di una anziana lettrice, che lo inviterà a fare un viaggio dall’altra parte del mondo, sui luoghi abitati da quella scrittrice ormai scomparsa da tempo.
È un momento di una grazia assoluta. Intendo la grazia dei greci, la “charis”, (dal verbo “chairo”, provo piacere”, “godo”, “gioisco”).
Come si apprende in uno dei passaggi più belli dell’ultimo libro di Matteo Nucci (“Sognava i leoni. L’eroismo fragile di Ernerst Hemingway”) la grazia per i greci è «una bellezza in cui proviamo la felicità della nostra realizzazione, perché siamo grati di esserci, siamo felici della nostra esistenza, tanto che finiamo per caratterizzare il nostro movimento con un tocco pieno di senso, pieno di volontà di vita, in cui sentiamo di essere presenti e in cui ci riveliamo per quel che siamo. La grazia dunque è, sì, quella bellezza che si manifesta nel tocco, nel movimento, ma non ha nulla a che fare con una codificazione del gesto da galateo, quella carineria che ormai sembra aver preso piede soprattutto nell’uso dell’aggettivo “aggraziato”, quella futile apparenza da ragazze beneducate. No, la grazia è talmente piena, pesante, possente e potente che non a caso si sporge sul versante del divino».
“Piena, pesante, possente e potente”. Tale è per me la scrittura di Mendelsohn, sin dal momento in cui si riversa sulla pagina: una scrittura impregnata di grazia.
In quel viaggio verso il Sudafrica con l’anziano padre (quel padre che lo accompagnerà nel viaggio raccontato in “Un’Odissea”), c’è la chiusura di un anello, il compimento di una storia, di un destino, nuove corrispondenze e connessioni con avvenimenti del passato.
C’è qualcosa di eterno, di divino. C’è la sete di conoscenza, la scoperta e l’indagine intellettuale, il viaggio e la ricerca di testimonianza (che è la materia alla base de “Gli scomparsi”): il “pothos”, l’anelito che muove Alessandro Magno verso nuovi orizzonti e nuove conquiste.
“Il pothos” che rende noi lettori grati per tutto ciò che ancora non abbiamo letto, scoperto, conosciuto.
Recensione di Valerio Scarcia
“Il ragazzo italiano: uno scrittore e un lettore” (Daniel Mendelsohn e Valerio Scarcia)
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