FUOCO PALLIDO, di Vladimir Nabokov
Un titolo decisamente di nicchia ma universalmente riconosciuto come un capolavoro letterario del secolo appena trascorso è la mia proposta, forse meglio sarebbe definirla sfida, di oggi.
La morte del celebre poeta John Shade scatena una guerra accademica per l’onore di editare e pubblicare l’ultima sua opera, un poema autobiografico.
A spuntarla è Charles Kinbote, un bizzarro ricercatore dal passato misterioso, malvisto negli ambienti universitari a causa della sua amicizia con Shade, troppo recente e ambigua per apparire genuina: Kinbote, convinto di essere la reale fonte di ispirazione del poema, crede di leggere se stesso nelle rime dell’amico ma l’esperienza di critico si rivelerà molto più di un’impresa letteraria.
Esposto sotto forma di prefazione, poesia, commento critico e glossario, Fuoco pallido è un romanzo ipertestuale o, per dirla alla Calvino, un “iperromanzo”, cioè un nucleo centrale attorno al quale ruotano diverse storie, ognuna delle quali espone la trama principale da punti di vista diversi, creando un sistema di scatole cinesi che richiede non poca fatica per essere compreso: negli intrecci del romanzo leggiamo la storia di Shade, la cui vita è stata dedicata totalmente all’arte e dall’arte è riuscito a trarre conforto nei momenti più bui; quella di Kinbote, sgradevole personaggio dalla doppia identità che oltre a nascondere un segreto è anche il rappresentante dell’aspetto più meschino dell’ambiente accademico, popolato da arroganti professori senza scrupoli, avidi e insensibili, incapaci di vera critica letteraria perché prevenuti nei confronti di testi e autori; c’è poi la storia di una rivoluzione in un immaginario paese dell’Europa Orientale dove i nobili vengono esiliati e un sicario viene messo sulle tracce del re: in ognuna di queste trame compaiono personaggi memorabili, come la sconfitta Hazel, il patetico sicario, la fiera regina e ognuno di essi è il portavoce di istanze diverse esposte, però, senza che il lettore abbia mai esattamente chiaro quanto ci sia di concreto, nella narrazione, e quanto invece sia frutto delle fantasie del commentatore Kinbote, convinto che il poema dovesse raccontare la sua vicenda personale e incline a lunghe digressioni che accentuano la sensazione che sia impossibile distinguere realtà e finzione e che da questo connubio inscindibile scaturisca il fascino del più strano ma affascinante romanzo che mi sia capitato di leggere di recente.
Pur nella sua concezione frammentaria, il libro ha una sua omogeneità data proprio dalla bizzarra forma scelta dal suo autore per esporre la vicenda, forma che costringe il lettore a leggere note, tornare indietro o saltare avanti alla ricerca del collegamento necessario a capire un passaggio.
Lettura difficile, richiede costanza e impegno ma ripaga con la possibilità di ammirare la prosa di uno dei più raffinati e coinvolgenti autori del Novecento.
Recensione di Valentina Leoni
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