GÉNIE LA MATTA, di Inès Cagnati (Adelphi – gennaio 2022)
Straniera ovunque, l’anima migrante si veste di poco. Quattro cenci. Nulla. Le conversazioni allontanano come tutte le parole. Ne rimangono poche, di parole, rinchiuse nel silenzio del proprio cuore così simili alla natura che riluce di bellezza divina.
Ho letto questo romanzo negli anni Ottanta, poco dopo la sua pubblicazione in Francia. Nata nel Lot-et-Garonne, un dipartimento della dolce e mite Aquitania, Inès Cagnati (1937-2007) è figlia di emigrati del Nord Est italiano, come mia madre. Ho ritrovato in queste pagine la geografia della mia infanzia, altri sapori autentici che sanno di identità che non riesco a percepire in me. Come Inès Cagnati, non mi sento né francese, né italiana. Vi è in noi un’impossibilità ad essere entrambe le cose eppure lo siamo. Definirci diventa una sfida oltre i confini del possibile.
Autrice di tre romanzi e di una raccolta di racconti, tutti premiati, Inès Cagnati non ha mai frequentato salotti letterari, preferendo rimanere in disparte. Lei stessa diceva: si scrive solo se si ha qualcosa da dire. Sconosciuta perlopiù in Italia, ecco che, dopo quindici anni dalla sua morte, Adelphi ci propone “Génie la matta” tradotto e curato da Ena Marchi. Un libro denuncia nei confronti di una società benpensante rurale degli anni trenta / quaranta del secolo scorso. Una storia che ci parla dell’amore incondizionato di una figlia nei confronti della madre costretta a vivere ai margini della vita degli altri perché “colpevole” di essere stata stuprata a diciassette anni. Una Francia rurale, ignorante, incolta, ruvida e rude. Una campagna, a pochi nota, che nonostante il fango, il freddo invernale e l’inospitalità dei suoi abitanti è ricca di colori, odori, suggestioni, rumori.
Una scrittura precisa, secca, senza orpelli, con un ritmo ripetitivo in una sorta di crescendo emotivo che ci porta a un gran finale tragico e inevitabile. La crudeltà contadina schiaccia le vite delle persone povere, fragili, senza niente.
Génie è una di queste. La conosciamo attraverso le parole di una bambina. Marie. La figlia. Un’infanzia rubata. La scorgiamo nei campi, mentre cerca di non perdere di vista la madre che si reca a lavorare da un contadino all’altro, sempre in affanno per tenere il passo: «correvo con tutta la velocità delle mie gambette, col cuore che faceva il matto» (p 11), e lei senza mai commuoversi o prenderla per mano: «Non starmi tra i piedi.» (p 19) Lei che è così perché non ha mai avuto niente dalla vita. E Marie non si arrende e con tutta sé stessa le dice: «Hai me.» (p 19) Un continuo ripeterglielo: «Avevo sempre voglia di dirle che la stavo aspettando, che ero così felice, così felice che fosse tornata anche quella sera, che le volevo bene. Ma il suo viso era pieno di silenzio» (p 120)
Nel deserto degli affetti della piccola Marie, c’è una nonna cattiva che la disprezza; un nonno che le regala mele e noci ma che non riesce a fare molto di più; zii e cugini abietti come tutto il paese che la considera colpevole delle colpe della madre, che sono poi le colpe delle violenze subite.
Ma c’è anche Pierre. Una sorta di miraggio. Svanirà presto. Ma sarà un amore sincero. Poesia pura: «Ti porterò laggiù ai margini dei deserti, e gli sciacalli verranno a piangere alla luna. Le notti saranno piene del pianto degli sciacalli tra la sabbia e la luna.» Parole, quelle di Pierre per sognare: «E il pianto degli sciacalli si mutava in lacrime di luna.» (p 45) E ancora si carica di esotico, di giardini con agrumi tipici di paesaggi del Sud o piante lontane australiane il cui fogliame ricorda il piumaggio degli uccelli: «Ti porterò lontano, e dormiremo nel giardino del pompelmi, nel mormorio delle casuarine» (p 107) Con Pierre emerge tutto quello che Marie non ha. Tutto quello che Marie non è. Desiderando un futuro con Marie le dice: «Un figlio è la memoria della vita.» (p 93) Lei che non è vita e memoria per nessuno.
Purtroppo, la felicità non appartiene alla vita di Marie né a quella di sua madre. L’aspra realtà contadina, ignorante e vile, non si trasformerà in uno slancio di compassione, ma rimarrà ancorata alla sua natura incolta distruggendo il loro sogno di una vita come le altre. La follia, il marchio a vita per Génie. «Una matta in libertà tutti la guardano. Ma una matta rinchiusa tutti se la dimenticano.» (156-7) Con queste parole la nonna di Marie esprime il piccolo mondo contadino, incapace di amare e di comprendere il dolore altrui, crudele artefice della fine dell’innocenza. Non c’è molta differenza fra un SS dei campi di sterminio e un francese dei campi del Sud della Francia della prima metà del secolo scorso.
«Lasciatela dormire», con i delicati versi di Robert Desnos, poeta morto di tifo in un campo di concentramento, Inés Cagnati ci invita a lasciare Génie riposare in pace, lei che da viva già «dormiva così lontano, in fondo a tutti quegli anni di stanchezza.» (pp 141-2) Lei che oltre ogni confine, ai margini di tutte le cose è diventata la terra che l’ha generata e la campagna che non l’ha mai amata.
L’infanzia per Inés Cagnati è sinonimo di dolore e solitudine, così la campagna, così la scrittura. L’istruzione l’unica via verso l’altro. Che accoglie lo straniero, il diverso. Che altrimenti rimane intrappolato nella terra degli altri. Nei campi del dolore. E «il cuore fa il matto».
Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto
GÉNIE LA MATTA Inès Cagnati
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