GLI ANELLI DI SATURNO W. G. Sebald

GLI ANELLI DI SATURNO, di W. G. Sebald (Adelphi)

 

Mi sono perso ripetutamente, ritrovato e di nuovo perso, fra le pagine di W.G.Sebald, fra le sue «Vertigini», il suo poemetto d’esordio «Secondo natura», fra le connessioni dei suoi «Anelli di Saturno».

Mi sono perso e poi ritrovato, seguendo e smarrendo via via il filo dei suoi viaggi, delle sue digressioni, dei suoi incontri.

Accade che non ci si renda nemmeno conto, leggendo le sue pagine, dell’approssimarsi di un avvenimento, di avvicinarsi a qualcosa o a qualcuno.

La sensazione è quella dello scivolamento. Un improvviso mutamento. Si era in piedi e ora non lo si è più, si è scivolati verso una nuova digressione, una nuova «connessione gravitazionale», per usare una formula che il caro Ernesto Ferrero aveva dedicato a Roberto Calasso e alla sue sue straordinarie doti oratorie.

Il racconto di un viaggio, il resoconto di un cammino, diventano pian piano occasione per ripercorrere i passi di qualcuno che ha compiuto quel percorso prima di lui, prima di noi. Stendhal, Conrad, Casanova, Flaubert, Kafka. Si calcano le loro orme, si cercano le loro tracce, e voltata la pagina si è pronti a un nuovo racconto: il filo si srotola, sembra prendere una traiettoria del tutto casuale.

Quel filo tiene insieme Omero, Odisseo, l’arcivescovo Fénelon e “Le avventure di Telemaco”, la composizione ad anello, Erich Auerbach (il cui capolavoro, “Mimesis”, si apre con un capitolo intitolato proprio “la Cicatrice d’Ulisse”, in riferimento al più noto degli esempi di quella tecnica di composizione); tiene insieme la filologia, la comparazione, la “connessione di tutte le culture fra loro”, il concetto di “letteratura mondiale” coniato da Goethe. Quel filo passa per W. G. Sebald, i suoi esuli, i suoi emigranti; passa per gli ultimi, i dimenticati, gli emarginati raccontati da William T. Vollmann, per giungere fino a Daniel Mendelsohn.

Avevo di recente incontrato W.G.Sebald, questo tedesco errante, proprio nel ritratto che Mendelsohn disegna nel suo “Tre anelli. Una storia di esilio, narrazione e destino”. Tre anelli, appunto, tre esistenze in esilio, strettamente connesse l’una all’altra (Erich Auerbach, l’arcivescovo Fénelon, W.G.Sebald).

È “Gli anelli di Saturno”, fra i libri di Sebald, il preferito di Mendelsohn, «perché è il più emblematico del suo strano stile, uno stile caratterizzato dal frequente ricorso alla tecnica a cui allude la menzione degli anelli nel titolo. Al pari di Omero, Sebald usa la composizione ad anello con grande efficacia. Ma a differenza delle divagazioni e le digressioni, dei cerchi e gli anelli narrativi che troviamo in Omero, che sembrano avere lo scopo di illuminare e mettere in scena un’unità nascosta fra le cose, quelli che troviamo in Sebald paiono avere lo scopo di confondere, intrappolando i personaggi in meandri dai quali non riescono a districarsi e che sembrano non portare da nessuna parte. Negli “Anelli di Saturno”, le traiettorie meticolosamente tracciate tanto nella Storia quanto nella natura portano soltanto alla dissoluzione e alla sconfitta».

Come recita la citazione riportata in esergo al libro, «gli anelli di Saturno consistono in cristalli di ghiaccio e particelle di pulviscolo di presumibile origine meteoritica che ruotano in orbite circolari intorno al pianeta, all’altezza dell’equatore. Sono verosimilmente frammenti di un’antica luna che, troppo vicina al pianeta, fu distrutta dalle sue forze di marea».

Pulviscolo, particelle, materia che si disgrega. Tale è la sensazione del lettore alle prese con i resoconti di questi viaggi, di questo vagare nello spazio e nel tempo. Parole che si sgretolano fra le mani, come una zolla di terra che si disfa, lasciando solo minuscoli granelli sulle dita.

L’ «orrore paralizzante» che si manifesta in Sebald – figlio di un ufficiale della Wehrmacth, lo scrittore si autoesiliò in Inghilterra, per una sorta di senso di colpa e di vergogna ereditaria – , è frutto di quella desolazione e quella distruzione che l’autore descrive nelle prime pagine del romanzo:

«orrore paralizzante da cui ero stato più volte assalito davanti alle tracce della distruzione che, persino in quella località sperduta, risalivano al lontano passato».

È lo stesso stato in cui si troverà Mendelsohn oltre un decennio dopo, a seguito della faticosa stesura de “Gli scomparsi” – un viaggio durato cinque anni, sulle tracce di suoi antenati scomparsi durante l’Olocausto – , prima di vivere l’avventura che lo porterà a scrivere “Un’Odissea. Un padre, un figlio e un’epopea”.

Scrive ancora Mendelsohn, in una delle meravigliose pagine del suo “Tre anelli”: «man mano che ci si inoltra nelle serpentine narrazioni di Sebald, diventa sempre più difficile sfuggire all’impressione che questo girare in tondo ci estenui senza mai avvicinarci all’argomento. Mentre gli anelli di Omero ci conducono in modo vorticoso verso la rivelazione e l’illuminazione, addentrandosi sempre più nel passato di Odisseo fino al momento della sua nascita e della scelta del suo nome, ovvero le chiavi della sua identità epica, i cerchi dell’irrequieta narrazione di Sebald ci portano a una serie di porte chiuse di cui non c’è la chiave».

Una scrittura che fallisce, dunque, che non può spiegare, far luce, indagare a fondo, recuperare ciò che non esiste più. Qualcosa deve essere «lasciato nell’ombra», scrive Auerbach, che nutre forti dubbi circa l’efficacia della tecnica di composizione ad anello.

Presto verrà il tempo di perdersi ancora, di ritrovare il filo e di perdersi nuovamente, fianco a fianco con questo “Passeggiatore solitario”. Sarà il tempo di incontrare “Austerlitz”, poi nuovi esuli e nuovi “Emigrati”.

In quel vuoto racchiuso dall’enorme anello che tiene insieme le sue storie, in quella «Storia naturale della distruzione», sarà ancora il tempo di far risuonare quella vecchia profezia, scovata molti anni fa tra le pagine di un libro che non hai più ritrovato: «in questo libro nel quale sei appena entrato senza precauzione né prudenza, non lo sai ancora, ma corri, come me, il rischio di perderti».

W. G. Sebald

“Gli anelli di Saturno”

Adelphi Edizioni.

Recensione di Valerio Scarcia

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