GLI INTRAMONTABILI: I PROMESSI SPOSI Alessandro Manzoni

GLI INTRAMONTABILI: I PROMESSI SPOSI, di Alessandro Manzoni

 

 

 

 

Recensione 1

Questa mia riflessione non ha alcuna pretesa di aggiungere nulla di più rispetto a quanto è stato detto e scritto su quest’opera; tuttavia voglio condividere con voi il motivo per cui ho deciso di rileggerla con la maturità degli oltre quarant’anni e quello che più mi è rimasto, anche alla luce del periodo che stiamo vivendo.

Ho riletto i ” Promessi sposi” perché mi ricordano il mio caro papà che è mancato quasi da un anno; era un insegnate di lettere ormai in pensione e spesso ne citava a memoria i contenuti. Quest’estate, frugando tra i suoi libri, ho trovato un’edizione scolastica e ho iniziato ad accarezzare l’idea di fare un tuffo nel passato rileggendo quest’opera dopo almeno trent’anni. Ho ritrovato il suo sorriso e la sua voce, la sua immagine a sedere sul divano, e mi ha fatto bene al cuore, sebbene talvolta mi assalga la malinconia di quel che non è più visibile ma si fa presenza nell’assenza.

Quanto all’opera, sono rimasta stupefatta dell’attualità del Manzoni un merito alla sua conoscenza della natura fallibile dell’uomo.

In particolare mi riferisco ai capitoli dedicati ai tumulti di Milano in cui viene coinvolto Renzo: dopo due anni di carestia la folla si ritrova alla fame e chiede alle autorità di prendere provvedimenti che verranno presi, cioè abbassare il costo del pane, ma che non porteranno altro che aggravare la situazione, perché rimane alto il costo del grano.

Il governatore rincara allora il prezzo del pane, provocando una sollevazione popolare che porterà all’assalto del forno delle grucce, che verrà forzato, saccheggiato e distrutto.

La città è dominata dalla furia incontenibile della folla, una “moltitudine male e ben vestita” , che distrugge quel che trova, lasciando perplesso anche il nostro Renzo:

” Questa poi, non è una bella cosa, se conciano così tutti i Forni, dove vogliono fare il pane, nei pozzi? “

Lui stesso, uomo semplice ma pieno di buon senso, si accorge che la rivolta fine a sé stessa non porta da nessuna parte.

Manzoni descrive il popolo che insorge, come una moltitudine di gente che si lascia trascinare da uno sparuto gruppo di facinorosi che riesce a coinvolgerla con discorsi senza senso.

Facendo un salto in avanti di circa duecento anni, arrivando ai nostri giorni, chissà cosa direbbe il nostro Manzoni, guardando con la lente il mondo in balia della pandemia, quando ci sono gruppi di persone in grado di trascinare con i propri stolti discorsi, la moltitudine ignorante? Che si fida di chi non sa nulla a dispetto di chi ha studiato?

Concludo la mia riflessione con l’immagine che più mi ha turbato in tutto il romanzo: Don Rodrigo, tornando da una serata di bagordi ( in cui tra l’altro fa una specie di elogio funebre del conte Attilio) inizia ad avere le prime avvisaglie della peste. Sarà una lunga notte, per l’angoscia crescente e la disperazione più assoluta, in cui chiama il “fedele” Griso, che invece lo tradirà, perché ha compreso che il suo padrone ha contratto la malattia e lo consegnerà ai monatti.

Non aggiungo altro, perché mi sono dilungata abbastanza.

Se vorrete, a voi i commenti!

Recensione di Cinzia Lascari

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Recensione 2

Suppongo non si senta la mancanza di un ulteriore commento sull’opera più conosciuta (e odiata) dagli studenti italiani.
A scuola, così come la fanno digerire, ci ho capito poco o niente. Una mattina mi è presa la strana fantasia di leggerlo daccapo, dal principio intendo, e pur trovandolo pesante (avevo sempre quindici anni) mi è finalmente apparso come quello che era: un romanzo.
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La prima, vera lettura l’ho fatta molti anni dopo, quando avevo già la testa abbastanza a posto per godermelo. Da allora, tra una cosa e l’altra son passati vent’anni e quindi decido di rileggerlo e, sorpresa, mi piace più di prima, mi pare di cogliere cose che non ricordavo. Credo davvero, stavolta, di avergli reso giustizia; ci ho messo più tempo a leggerlo, e in questo caso specifico mi pare una cosa positiva.
Inutile aggiungere cose già dette e ridette: memorabili le descrizioni minuziose dei personaggi, anche minori. La loro presenza scenica è incredibile: un gesto, un’espressione bastano a creare l’illusione di vedere anziché leggere.

Don Abbondio si conferma il personaggio meglio caratterizzato, e in fondo (confessatelo) il più amato di tutti perché il più umano e simile a noi. Ma il mio capitolo preferito rimane sempre quello dell’incontro tra l’Innominato e il cardinal Borromeo, giunto nel paesino per una visita pastorale quantomai “provvidente”.
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Certo, le frequenti divagazioni storiche fanno perdere spesso il filo della storia, che pure è arcinota, e spezzano il ritmo narrativo. Alcune non mi sono sembrate utili o pertinenti, mentre avrei preferito vedere inclusa nel racconto la Storia della colonna infame, che ci stava tutta. D’altra parte ho gradito moltissimo quel piccolo romanzo nel romanzo che è la storia della Monaca di Monza.
Insomma, per la terza volta tifo ancora per quel benedetto matrimonio. Perché in fondo, dopo i dibattiti sulla lingua, sul romanzo storico, sulla Provvidenza e sul potere salvifico del perdono, sotto sotto, in fondo al barile, ci sono quei due contadini di vent’anni che vengono travolti dagli eventi.
Tutta colpa dell’Alessandro, dopo tutto

Recensione di Paola Fiorentini

L’isola dei tesori, dove gli animali sono preziosi

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