GLI SCOMPARSI, di Daniel Mendelsohn (Einaudi)
Che scrittura. Che sensibilità.
Quanti mondi. Quanti libri, quante storie dentro le storie.
E non smetto di parlarne, a cena, al lavoro, agli amici a cui lo regalo, ai clienti a cui lo consiglio.
Non smetto di scriverne lunghissimi post. Così da mesi, in continuazione.
Mendelsohn. Quello che sta per chiudersi, è stato per me l’anno di Mendelsohn. Non c’è dubbio alcuno.
Terminata l’ultima pagina de “Gli scomparsi”, il più famoso (e corposo) dei suoi libri, provo qualcosa di molto simile a quanto io abbia già vissuto dopo la lettura degli altri due libri pubblicati in Italia, ovvero “Tre anelli. Una storia di esilio, narrazione e destino” , ma soprattutto “Un’Odissea. Un padre, un figlio e un’epopea”.
La sensazione di chi abbia compiuto un viaggio (e lo ero davvero, in viaggio, mentre terminavo “Gli scomparsi”, con tutto quel corollario di simboli, immagini che la lettura in viaggio suggerisce: panorami che scorrono oltre il finestrino, soste, fermate, etc.); la sensazione di aver incontrato una moltitudine di persone, di aver accumulato esperienze, di essere cresciuto. Di aver imparato. Perché è di conoscenza, sopra ogni cosa, che i libri di Mendelsohn sono intrisi. Della insaziabile sete del sapere, della curiosità dello scoprire, della meticolosità, della cura, nel maneggiare, rielaborare, ricostruire, trasmettere quella conoscenza, quel sapere.
Le lunghe ore trascorse, accucciato per terra, ad ascoltare i racconti di suo nonno Abraham, l’impareggiabile talento di quel narratore estroso, il suo interesse per la genealogia, il suo amore per le cose antiche (“lontane”) , segneranno per sempre il piccolo Daniel.
Divenuto adulto, lo scrittore Daniel Mendelsohn, studioso e docente di greco antico, parte per un viaggio in Europa, per cercare la risposta a una domanda. Sempre una, sempre quella. La domanda a cui suo nonno Abraham, ebreo polacco emigrato negli Stati Uniti prima della Seconda Guerra Mondiale, non ha mai trovato risposta: che fine hanno fatto suo fratello Schmiel, la moglie e le loro quattro, bellissime figlie? Dove sono morti, in quale modo? Per mano di chi?
«Tempo fa, avevo sei, sette o otto anni, appena entravo in una stanza capitava che qualcuno scoppiasse a piangere». Questo lo struggente incipit del libro. La somiglianza fra il piccolo Daniel e lo zio Schmiel, lo “scomparso”, è un segno evidente, una traccia, un presagio (a mio personale modo di vedere) di quello che accadrà: le strade del piccolo Daniel e dello zio Schmiel che si incontreranno fin quasi a sovrapporsi, quasi fino a diventare una cosa sola, molti decenni dopo, ai tempi del viaggio di Daniel.
Non un libro sulla immane tragedia che ha colpito oltre sei milioni di ebrei, ma la storia (le storie) , di un piccolo lembo di quell’enorme tessuto di vite, cancellate per sempre dalla faccia della terra. “Scomparsi”. Emblematico, in questo senso, il sottotitolo all’edizione originale: “A Search For Six of Six Million”. Sei persone, su sei milioni.
«Per me era solo una questione di famiglia, un interesse privato. In fondo volevo scoprire quale fosse stato il destino di zio Schmiel e degli altri» scrive Mendelsohn.
Ma i libri di Mendelsohn sono scatole magiche, che contengono antichi incantesimi. Sollevato il coperchio, si sprigiona la magia: il cerchio si allarga, genera nuovi cerchi, nuovi anelli. Le relazioni fra gli eventi si infittiscono, nuovi elementi affiorano, per dar luogo a nuove relazioni, connessioni, digressioni.
E così accade che il viaggio si dilati nel tempo, che nuove destinazioni si aggiungano alla meta iniziale, che nuovi personaggi, nuovi testimoni, nuove voci facciano il loro ingresso sulla scena.
E così accade che per oltre cinque anni, Daniel Mendelsohn si trovi a viaggiare tra l’Ucraina (il piccolo pease di Bolechow, per oltre trecento anni casa della sua famiglia) e Israele, fra la Svezia e la Polonia, poi di nuovo Israele, poi Vienna, Danimarca, Australia, e infine di nuovo Ucraina, per raccogliere le testimonianze di chi ha conosciuto lo zio Schmiel o le sue figlie, per ricostruire gli ultimi momenti delle loro esistenze. Per scoprire particolari sempre nuovi.
Ma qualcosa non funziona. Alcune persone si rifiutano di parlare, sembrano reticenti, faticano a guardare le foto che Daniel fa passare sotto i loro occhi (splendide foto in bianco e nero, che compaiono nel libro, impreziosito da una continua alternanza fra gli episodi raccontati, i resoconti dei viaggi, le testimonianze raccolte e le “parashat”, le letture settimanali della Torah: la Genesi, la storia di Caino e Abele, il Diluvio Universale, la distruzione di Sodoma e Gomorra, il sacrificio di Isacco).
La “memoria”, il ricordo, si rivela come qualcosa di misterioso e imperscrutabile. Troppo doloroso, per chi rimane, ricordare.
Troppo doloroso, guardare quelle foto (“Sunt lacrimae rerum”, recita l’Enea virgiliano, imbattendosi in una rappresentazione della distruzione di Troia).
Troppo difficile, per chi si è salvato, raccontare (è questo il filo che lega moltissimi libri, da “I sommersi e i salvati” alla testimonianza di Stella Levi, sopravvissuta ad Auschwitz, nel recente libro di Michael Frank, “Cento volte sabato”, passando per “Il silenzio dei vivi” di Elisa Springer).
Sarà Matt, il fratello fotografo di Daniel, che lo ha accompagnato per quasi tutte le numerose tappe del viaggio, ad avere l’intuizione decisiva: perché tutti i pezzi vadano al loro posto, per sbrogliare il filo della storia, sempre più intricata, di quei sei “scomparsi” e del loro triste destino, bisogna ricostruire le loro vite, cercare informazioni, particolari, che ci aiutino a tratteggiare i loro ritratti. Quella che era iniziata come l’indagine su una tragedia e sulle sue oscure circostanze, diventa così una improvvisa esplosione di luce («fra noi e le cose», dice Cioran, «si frappone la luce»).
Nel tentativo di ottenere quante più informazioni e dettagli possibile, Matt e Daniel cominciano a invitare i loro interlocutori a parlare delle vite dei loro “scomparsi”. “Come erano? Come vivevano? Che ricordo avete di loro?”.
Un cambio di strategia, una nuova prospettiva, un nuovo metodo. Qualcosa che molto ha in comune con il momento decisivo di “Un’Odissea”: quando, cioè, Mendelsohn si rende conto che non sta tirando fuori il massimo dalla storia che sta scrivendo. I pezzi non combaciano, i conti non tornano.
Come potrà mai lo scrittore, mettere insieme il resoconto del suo seminario sul poema omerico, la presenza in aula del suo anziano padre, seduto a poche file di distanza da un gruppo di matricole diciassettenni, con pezzi della sua vita e della sua infanzia, il rapporto fra padre e figlio, il viaggio fatto insieme al termine del seminario, una crociera sui luoghi dell’Odissea? Mendelsohn capisce che, perché il racconto funzioni, dovrà adottare la tecnica utilizzata da Omero, la “composizione ad anello”.
In questo andamento a spirale, il narratore sembra allontanarsi dal punto di partenza, aggiungendo in realtà nuovi elementi, nuovi dettagli, che gli permettano di spostarsi avanti e indietro nel tempo, per tornare infine al punto di partenza, avendo così catturato l’attenzione del lettore e avendogli messo a disposizione il maggior numero possibile di informazioni a sua disposizione.
La rivelazione di Matt, sarà una delle chiavi che renderanno possibile il raggiungimento di una verità, una soluzione plausibile, un “fatto”, che potrà finalmente essere rielaborato, potrà diventare una “storia” , una favola da raccontare, un libro da scrivere (un libro che, senza l’intuizione di Matt, certamente non sarebbe mai stato scritto, come ammette lo stesso autore).
È uno dei passaggi più belli del libro, un momento che segnerà un inatteso avvicinamento fra i due fratelli, sempre molto distanti, prima di allora mai complici di nulla.
Commovente il ringraziamento finale, quando Daniel confessa di aver trovato in Matt il suo tesoro più grande, nell’arco di quei cinque lunghi anni.
Come si fa a restare indifferenti, come si fa a non commuoversi, davanti a tutto ciò? Proprio non saprei.
Daniel Mendelsohn
“Gli scomparsi”
Einaudi.
Recensione di Valerio Scarcia
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