GORMENGHAST Mervyn Peake

GORMENGHAST, di Mervyn Peake (Adelphi)

 

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Il vecchio e il nuovo. Gormenghast, questo nome così strano e leggermente inquietante, è il nome di un microcosmo unico, un castello diroccato, intricato, fatiscente, quasi infinito, dove inizia e si esaurisce la narrazione, retto da meccanismi immutabili, sormontato dal monte Gormenghast. I signori del luogo sono i conti de’ Lamenti ( Groan, il nome originale, mi pare più efficace) che vivono in un mondo rigorosamente feudale, totalmente distaccati dagli abitanti esterni, la plebaglia che pratica come unica attività scolpire statue bizzarre da mostrare al castello una volta all’anno, e dagli altri abitanti del castello. Grotteschi sia nel corpo sia nello spirito sono gli abitanti del castello, come la gigantesca moglie del conte Gertrude, distaccata e circondata da tanti gatti bianchi e uccelli, i segaligni dottor Floristrazio e sua sorella Irma, superficiale e vanitosa, i professori di scuola Carampanio con la testa da profeta e i denti guasti e Opus Flatulo, che non fa altro che fumare sdraiato sulla sua poltrona, il Preside che si fa portare in giro in seggiolone, il maestro del rituale Barbacane, storpio e allergico a pulizia e sapone e l’ambizioso servitore Ferraguzzo con le spalle curve e gli occhi rossi, agile come una scimmia.

La narrazione si incentra sul figlio del conte, il giovane Tito, che dopo un’infanzia senza privilegi tra gli altri scolari del castello come è tradizione per i conti de’ Lamenti, sente crescere un fortissimo desiderio di libertà dal mondo opprimente di Gormenghast. Ogni giorno la sua giornata risulta scandita da rituali pesanti e incomprensibili a cui deve presenziare come erede di Gormenghast e da una tradizione polverosa e mortifera per ogni emozione e sentimento. Tito brama la libertà che non ha mai conosciuto e che è rappresentata dalla Cosa, la figlia illegittima della nutrice che vive nei boschi allo stato brado, senza sottostare a nessuno e si sposta leggera come se volasse, come la sorella maggiore Fucsia brama l’amore e la passione che nelle polverose sale di Gormenghast non ha mai conosciuto e la liberazione dalla sua condizione di eterna bambina.

Quello che rapisce del romanzo sono le descrizioni, la ricchezza evocativa delle frasi di Peake, anche se a volte molto lunghe e complesse, che disegnano polverose e decrepite stanze e intricati corridoi dove aleggia la decadenza e dove i colori sembrano sbiaditi, in contrasto con la ricchezza di quelli del mondo esterno, che Tito conosce grazie a incursioni clandestine. Altro elemento insolito risulta l’assenza di un genere dove incasellare la narrazione, a parte il romanzo di formazione, perché ci sono i fantasmi dei morti a Gormenghast ma non appaiono mai, per cui non si tratta di horror, e non vi sono strane creature diverse dagli uomini che possano far pensare ad un fantasy. Si tratta di una trilogia ma mi è capitato di leggere il secondo perché non avevo mai sentito parlare di questo autore e un articolo mi aveva incuriosito e non ho avuto grande difficoltà a capire la storia, pur non avendo letto il primo.

Da leggere per chi ama le storie gotiche e grottesche.

Recensione di Eleonora Benassi

GORMENGHAST Mervyn Peake

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