IL CAPPOTTO, di Nikolaj Gogol’ (Mursia)
Qualcuno è riuscito a leggere Sanguina ancora di Paolo Nori senza interromperlo per leggere o rileggere i libri di cui parla? Io no. E non solo Dostoevskij. Scelgo Il cappotto (o Il mantello, a anche La mantella, con un titolo femminile che conserva il genere della parola russa corrispondente, e con esso l’idea dell’innamoramento che lega il protagonista Akakij Akakijevic a questo vero e proprio oggetto del desiderio). Lo scelgo perché Dostoevskij diceva che tutti (gli scrittori russi successivi a Gogol) erano nati da Il cappotto. E perché è emblematico di quel realismo che convive senza imbarazzo con elementi che a noi forse sembrerebbero fantastici ma evidentemente non lo sono per la cultura russa.
Così Akakij Akakijevic è realistico quando cerca di convincere il sarto a rattoppargli il vecchio pastrano, quando si affama per riuscire a pagarne uno nuovo di zecca, quando si sente orgogliosamente uomo per essere riuscito a pagarlo, quando si lascia umiliare da un pezzo grosso al quale chiede di cercare i ladri che lo hanno derubato. E non è meno realistico quando, fantasma, deruba i passanti dei loro cappotti. Perché i sensi di colpa di chi ignora le sofferenze di un essere umano che appare insignificante, trascurabile, inutile o addirittura fastidioso, quando quelle sofferenze diventano pesanti quanto la morte, i sensi di colpa generano fantasmi più reali della nostra immagine riflessa in uno specchio, che diventa insostenibile.
IL CAPPOTTO, di Nikolaj Gogol’
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