IL DISERTORE, di Abdulrazak Gurnah (NOBEL per la Letteratura 2021)
Abdulrazak Gurnah ha vinto il Nobel per la Letteratura 2021 per “la sua intransigente e compassionevole capacità di comprensione degli effetti del colonialismo e del destino dei rifugiati nel divario tra culture e continenti”. In Italia attualmente non esistono suoi romanzi in commercio, ma in questi giorni ho avuto la fortuna di leggere “Il Disertore”, pubblicato da Garzanti nel 2006, che contiene tutti i temi che lo hanno portato all’assegnazione del Nobel.
La struttura è complessa quindi cercherò di andare con ordine, ma soprattutto di concentrarmi sulle motivazioni del Nobel, senza spoilerare troppo.
Suddiviso in tre parti, il romanzo racconta nella prima l’incontro – avvenuto nel 1899 – tra l’africano Hassanali e l’inglese Martin Pearce, viaggiatore, scrittore e studioso dell’Oriente, ormai allo stremo delle forze. Hassanali (che in realtà è meticcio in quanto figlio di un indiano) è il bottegaio di “una cittadina sgretolata ai margini del mondo civilizzato” affacciata sulla costa africana dell’Oceano Indiano e si alza ogni mattina con il compito di aprire la moschea e chiamare la gente alla preghiera. Ecco perché è lui a vedere per primo Pierce, che da lontano gli appare come un “essere demoniaco” dagli occhi che luccicano di “una luce dura, pietrosa.” Non è difficile riconoscere subito in questa descrizione la personificazione stessa del colonialismo. A poco a poco Hassanali si rende conto, però, che ha di fronte un uomo e lo accoglie nella sua casa per prestargli le prime cure. Con lui vivono sua moglie e la sorella Rehana che è stata abbandonata dal marito.
Nel frattempo Frederick, un “uomo del Governo”, viene avvisato che un uomo bianco è stato trovato dagli indigeni e va a recuperare Pearce, accusando Hassanali di averlo derubato.
Quando si risveglia, Pierce spiega che in realtà è stato derubato dalle sue guide e abbandonato nel deserto, ecco perché non aveva più niente con sé. Va quindi a casa di Hassanali per scusarsi del comportamento di Frederick e per esprimergli la sua riconoscenza. Una volta lì si innamora però della sorella di Hassanali e inizia con lei una relazione clandestina da cui nascerà una bambina.
Per quanto riguarda questa prima parte, evito di scendere in ulteriori dettagli, ma ritengo importante – alla luce delle motivazioni che hanno portato Gurnah a vincere il Nobel – riportare alcune riflessioni sul colonialismo espresse da Pierce, Frederick e Burton (un altro inglese che viveva nella zona), perché danno al lettore un quadro completo di quelle che erano all’epoca le diverse visioni del colonialismo da parte degli Europei.
Burton è il più estremista ed era convinto che per il futuro dei possedimenti inglesi in Africa fossero necessari la scomparsa della popolazione autoctona e la sua sostituzione con i coloni europei: “questo continente ha le potenzialità per diventare una seconda America, ma non finché ci sono gli Africani. […]. Nell’incontro con la civiltà gli indigeni si distruggeranno, patiranno la fame e moriranno uno dopo l’altro”.
Frederick propende per una via di mezzo e sostiene di sentire una responsabilità verso gli indigeni. A suo avviso è necessario guidarli verso nuove responsabilità e fargli capire il senso del lavoro.
Pierce è il più morigerato: “Penso che con il tempo arriveremo a considerare in modo meno eroico quello che stiamo facendo in questi luoghi, arriveremo a vederci con minore indulgenza e a provare vergogna per alcune delle cose che abbiamo fatto.”
La seconda parte è ambientata alla fine degli anni Cinquanta e racconta la storia di tre fratelli: Amin, Farida e Rashid. Quasi tutta l’Africa, a quel tempo, era governata dagli Europei. “Nel giro di pochi anni la maggior parte se ne sarebbero andati lasciandosi dietro una serie di trattati e intese fragilissime che non si sentirono in dovere di onorare”, ma in quegli anni i giovani vivevano ancora con le aspettative delle persone colonizzate, nell’interregno tra la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Nessuno sapeva però che l’Indipendenza fosse vicina. Amin è il fratello più grande e a differenza di altri suoi compagni di studi e del fratello Rashid, non cerca occasioni per andarsene, vuole solo studiare per fare l’insegnante come suo padre.
Qual è il legame con la storia raccontata nella prima parte? Che Amin si innamora di Jamila, che altri non è che la nipote di Rehana e Pierce: sua madre è la loro figlia illegittima.
La relazione tra Amin e Jamila viene però ostacolata dai genitori di lui che non vedevano di buon occhio Jamila in quanto divorziata e nipote di una donna che all’epoca aveva destato scandalo andando a vivere con un europeo. Ecco quindi che Gurnah non risparmia critiche neanche ai suoi connazionali per i pregiudizi che, purtroppo, accomunano tutti gli uomini, in un modo o nell’altro.
Nella terza parte, infine, il romanzo si sofferma sulla storia di Rashid, fratello di Amin, e narratore: è lui che dall’inizio ci sta raccontando tutto e adesso ci parla della sua esperienza in Inghilterra, lontano da casa, dove andò a studiare dopo aver vinto una borsa di studio. Siamo alla fine degli anni Cinquanta, poco prima dell’Indipendenza e dei disordini che portarono il futuro Premio Nobel a rifugiarsi proprio in Inghilterra. Qui Rashid, mentre grazie alle lettere del fratello segue impotente la situazione a Zanzibar, fa amicizia con gli studenti stranieri, ma soprattutto sperimenta la diffidenza di quelli inglesi. A poco a poco nota le loro risatine e il loro disprezzo. “Ci volle molto tempo” – scrive Rashid che potremmo considerare qui un alter ego dello stesso scrittore – “perché imparassi a non prendermela, anni, una vita intera.” Ecco, ci spiega Gurnah, cos’è il razzismo per chi lo subisce. Non lo si supera mai. A un certo punto, più semplicemente, ci si abitua a conviverci. In Inghilterra Rashid impara qualcosa di cui non si era reso conto nel suo Paese, distratto com’era dai suoi drammi personali, ovvero che cos’era l’Imperialismo e quanto “la narrazione della nostra inferiorità e dell’appropriatezza della sovranità europea fosse profondamente radicata in ciò che passava per conoscenza del mondo.” Tutto questo, naturalmente, non valeva solo per gli Inglesi, ma per tutti gli Europei in generale.
Semplicemente magnifica questa terza parte, perché anche se è lontana dal modello “classico” di romanzo, condensa alla perfezione cosa provano gli stranieri quando arrivano nel paese dei conquistatori e ci fa vedere questi ultimi con i loro occhi. Non c’è odio nelle parole di Gurnah, tutto viene raccontato con una semplicità disarmante che aggrava ancora di più la posizione di chi assurdamente pretende di essere superiore a un altro uomo solo per motivi “di razza”. Gurnah ci insegna che accettando la distinzione tra bianchi e neri, a cui lui stesso fu costretto a sottomettersi, accettiamo anche di limitare la complessità delle possibilità, sottoscriviamo menzogne che per secoli hanno servito e continueranno a servire gli appetiti del potere e dell’autoaffermazione patologica.
Per concludere, non vi dirò come è andata a finire la storia tra Amin e Jamila, così come non l’ho fatto a proposito di Rehana e Pierce, perché credo che altrimenti leverei il piacere della lettura (prima o poi lo ristamperanno, si spera!). Come detto all’inizio, ho preferito soffermarmi solo sui temi oggetto della motivazione che hanno portato Gurnah alla vittoria del Nobel. Come già saprete ci sono state tante polemiche sull’assegnazione di questo premio – in particolare c’è chi ha accusato l’Accademia svedese di aver fatto vincere un perfetto sconosciuto. Ora che ho letto uno dei suoi libri più importanti, però, mi sento di dire una cosa con cognizione di causa: se anche gli altri suoi romanzi sono di questa qualità, allora grazie Accademia per averci fatto conoscere questo autore.
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