IL FIGLIO, di Philipp Meyer (Einaudi)
Dopo un periodo di permanenza in libreria, durante il quale mi guardava ogni volta che, passando, gli lanciavo un’occhiata e gli sussurravo “non è ancora il tuo momento”, sentendomi rispondere “prendi il tuo tempo, saprò conquistarti”, ho rotto gli indugi e mi sono buttata nella lettura de “Il Figlio”, il romanzo che segue “Ruggine americana”, ma che in realtà lo “precede” dal punto di vista cronologico del momento storico descritto.
Se con il primo romanzo Meyer ci aveva trasportato fin dentro la disfatta dell’impero industriale americano, tra acciaierie abbandonate, disoccupati allo sbando, e tutto un microcosmo di ubriaconi, “parvenus” ma anche di personaggi che anelano ad un riscatto, “Il Figlio” racconta i primordi di un’epoca, quando le pianure del Texas erano attraversate da milioni di capi di bestiame allo stato brado, quando bastavano pochi centesimi per comprare la terra, quella stessa terra che poi, dopo le prime trivellazioni, comincia a puzzare di petrolio, e allora quei pochi centesimi si trasformano in milioni di dollari, quando le tribù indiane lottano tra loro per la supremazia sui pascoli, sul bestiame e sull’uomo bianco, che specie per i Comanche può avere solo dignità di schiavo, o, al massimo, di passatempo da torturare.
L’autore usa, talvolta, un linguaggio spietato tanto quanto le efferatezze che racconta: i rapimenti, le uccisioni, gli incendi, gli stupri, le torture….tutto è tracciato con cura chirurgica, e con parole che tuttavia sanno ammaliare. Per il resto, vengono descritti paesaggi in cui la bellezza, gli odori, i colori avvolgono chi legge. In breve, nulla viene risparmiato, nel bene e nel male.
La storia è quella della famiglia Mc Cullough, il cui capostipite, Eli (il “Colonnello”), viene rapito dai Comanche, ridotto in schiavitù ma poi adottato e trasformato in un abile guerriero, fino al giorno in cui la tribù non viene sterminata dalla malattia, Eli riconquista la libertà e, grazie al suo carattere forgiato, alla durezza e ad un certo cinismo, anche prestigio e posizione sociale. Eli porterà con sé gli insegnamenti indiani, primo fra tutti l’arte della sopravvivenza, e forte di ciò getterà le basi della grande ricchezza della famiglia, i cui altri membri, però, non sapranno dimostrare la stessa determinazione e abilità. Certamente non il figlio Peter, cui ogni vena sanguinaria è del tutto estranea, e che, anzi, incontrato l’amore non sa rinunciarvi, nemmeno a costo del disprezzo paterno.
L’unica ad avere i tratti caratteriali del bisnonno è la pronipote Jeannie, che ne raccoglierà l’eredità e la capacità di fiutare gli affari, così come i rischi, donna di ferro in un mondo, quello dei pozzi petroliferi, interamente gestito da uomini affamati, di soldi e, al più, di sesso.
Eli, Peter e Jeannie sono quindi le voci narranti, impetuose, calde, ciniche o sprezzanti, a seconda delle situazioni, delle opportunità, delle necessità di vendetta o dei bisogni del corpo.
E’ un romanzo bello e preciso, che incide come una lama.
Buona lettura
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