IL GATTO, di Georges Simenon (Adelphi)
Entrambi rimasti vedovi dopo i sessant’anni, Émile e Marguerite decidono di risposarsi: lui è un ex capomastro, forte bevitore, silenzioso, legatissimo al suo gatto; lei è di estrazione benestante, figlia di industriali decaduti, avara e minuta, legatissima al suo pappagallo. Il matrimonio non funziona, da subito. Troppe le differenze e le diffidenze tra i due, che prendono a detestarsi reciprocamente, fino al culmine, alla morte del gatto per avvelenamento, imputata da Émile a sua moglie, cui seguirà la sua rabbiosa vendetta ai danni del pennuto. Da qui in poi i due non si parleranno più, per comunicare solo tramite laconici e accusatori bigliettini.
Non si pensi a grottesche paranoie di mariti e mogli, qua non siamo in una commedia di Woody Allen, qua la condivisione di un tetto si traduce in una logorante guerra di nervi, dove l’odio è protagonista, sostituto deviato dell’amore, un odio ai due indispensabile per sopravvivere, incontaminato e purificato da agenti esterni, farmaco sostitutivo contro la temuta solitudine. Entrambi sono a un tempo vittime e carnefici di convenzioni sociali, morali e religiose, prigionieri di un’esistenza sotterranea e claustrofobica, mentre fuori il mondo esterno subisce stravolgimenti epocali, con il quartiere che pezzo per pezzo, casa per casa, viene demolito per far spazio a nuove realtà commerciali.
Simenon parte da una storia semplice e con il suo stile asciutto e drammatico, disseminato di flashback, costruisce un’autentica tragedia di sapore classico, sottile e affilata come una lama.
Recensione di Riccardo Del Dotto
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