
IL GIORNO DELL’APE, di Paul Murray (Einaudi – gennaio 2025)

È difficile indicare con esattezza il punto esatto in cui, leggendo “Il giorno dell’ape” di Paul Murray, mi sia reso conto di trovarmi al cospetto di un libro straordinario.
Ancora più difficile è trovare le parole giuste per sintetizzare efficacemente una architettura tanto complessa, che si sviluppa per circa seicentocinquanta pagine.
Amato da Bret Easton Ellis, accostato dalla critica a “Le correzioni” di Franzen, acclamato dal New York Times e dal New Yorker, è uno dei sei romanzi finalisti al Booker Prize e il vincitore del più prestigioso premio letterario in Irlanda nel 2023.
Siamo ai giorni nostri, in Irlanda. Dopo decenni anni di florida attività sotto la guida dello storico proprietario Maurice, l’autosalone con annessa officina della famiglia Barnes – facoltosa famiglia di un imprecisato sobborgo a un paio d’ore di auto da Dublino – naviga in cattive acque.
La crisi economica colpisce in modo inesorabile il mercato dell’auto (impossibile non andare con la mente alla concessionaria Toyota di Harry “Coniglio” Angstrom nella tetralogia di Updike), ma la causa del declino della famiglia Barnes sembra essere la scarsa attitudine agli affari di Dickie, il figlio di Maurice.
Il rischio di fallimento disegna nuovi scenari e spalanca le sue fauci, inghiottendo lentamente Dickie e gli altri membri della famiglia Barnes: la bellissima moglie Imelda, la giovane ed enigmatica Cass e il piccolo PJ, il genietto della famiglia.
«Le sembrava impossibile che il presente, così inconsistente e volubile, col suo procedere a scatti, avanti e indietro, fosse l’immagine che prefigurava il resto della sua vita, quando a stento riusciva a vederci dentro la persona che era lei adesso».
Murray ci conduce in lungo e in largo nelle vite dei quattro protagonisti – e nel profondo delle loro solitudini, nelle loro delusioni e nei silenzi, nei loro privati fallimenti – , nel corso delle quattro lunghe sezioni che compongono il romanzo, come in una lenta e accurata esplorazione (qualcosa che mi ha ricordato il maestoso “Il declino dell’impero Whiting” di Richard Russo).
Procediamo in avanti e a ritroso nei decenni, alla ricerca di un momento preciso, di una falla: l’inizio del crollo, l’istante in cui la crepa ha iniziato lentamente a formarsi.
Sarà forse il lontano giorno in cui un’ape entrò dal finestrino dell’auto, insinuandosi sotto il velo di una giovane sposa? Un giorno in cui un fantasma si sarebbe palesato, come la vecchia zia di Imelda aveva predetto? (Un personaggio dalle doti divinatorie, la vecchia zia Rose, che sembra uscita da un romanzo di Tiffany McDaniel).
L’elemento metafisico rappresentato da una violenta alluvione che si abbatte sull’Irlanda e la crescente paura per le conseguenze del cambiamento climatico, fanno da sfondo alla vicenda e acquistano sempre più un ruolo di primo piano.
È il contesto in cui si svolgerà l’incalzante epilogo del romanzo, in cui le voci e i corpi dei personaggi convergeranno verso un medesimo punto e un medesimo istante, come attratti dalla stessa forza, dopo essersi inesorabilmente (ma forse non irrimediabilmente) dispersi.
Un finale che assomiglia a un pezzo di teatro.
Un coro, una polifonia. Un pezzo di scrittura magistrale che ricorda molto Faulkner, come giustamente sottolineato da Leonardo Oblique Luccone in una bella intervista a Murray recentemente apparsa su Repubblica (“Mentre morivo” il romanzo di Faulkner citato, ma a me è spesso venuto in mente “L’urlo e il furore”).
Una scrittura ricca di cambi di stile e di registro, accelerate e brusche sterzate, quella di Murray, resa splendidamente dalla eccezionale traduzione di Tommaso Pincio (impressionante la cavalcata “joyceana” nella terza, lunghissima parte).
Una scrittura che assomiglia a un prisma dalle molte facce. O a una sfera lanciata in un imbuto, che dopo molti ampi giri va dirigendosi verso il centro; via via sempre di più, prima dello strettissimo segmento finale che conduce rapido, senza scampo, verso l’uscita.
«Una volta che getti la maschera, tutte le altre maschere diventano trasparenti e ti accorgi che, sotto le peculiarità e le stramberie individuali, siamo tutti uguali. Siamo uguali nella diversità, nello star male per la nostra diversità. O, per metterla in altri termini, siamo espressioni diverse di una vulnerabilità e di bisogni uguali per tutti. È questo che ci unisce. E quando lo avremo riconosciuto, quando ci vedremo come una comunità di differenze, quelle stesse differenze non ci definiranno più. Sarà allora che potremo cominciare a lavorare insieme e cambiare le cose».
Paul Murray
“Il giorno dell’ape”
Traduzione di Tommaso Pincio
Einaudi Stile Libero.
Recensione di Valerio Scarcia
Commenta per primo