IL LIBRO DEL MESE: VECCHI RAGAZZI Elda Torres

IL LIBRO DEL MESE: VECCHI RAGAZZI, di Elda Torres (Manni)

 

Ernestina Pellegrini ed Elisabetta DeTroja, italianiste dell’Università di Firenze, su Vecchi ragazzi di Elda Torres (Manni 2022)

Romanzo storico, romanzo familiare, poliziesco, di genere, di formazione, autoritratto di gruppo… Un classico

 

 

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Appunti sul romanzo                                                                         Ernestina Pellegrini

 

Ho letto Vecchi ragazzi durante l’estate del 2022, spaventata inizialmente dalla mole di più di 400 pagine, per poi venire catturata e affascinata dalle storie plurime e intrecciate che questo libro a suo modo studiatamente centrifugo e rapsodico conteneva, per cui non riuscivo a smettere di leggere.

Questo romanzo che contiene tre romanzi (si tratta di una vera e propria trilogia), parla anche di me e della mia generazione, in un modo così fine, così analitico, così generosamente spietato e insieme pieno di pietas, in maniera così intelligente e lucida, da conquistare la mia attenzione. Elda ha scritto il suo autoritratto di gruppo (per dirla con un titolo di Luisa Passerini).

Il titolo è un ossimoro: Vecchi ragazzi. Il romanzo è tante cose, incastra vari generi letterari e questo costituisce per noi teorici della letteratura un motivo di interesse ulteriore, perché questo espediente strutturale dona al testo, ai miei occhi, una marcia in più. Questo romanzo mi coinvolge soprattutto emotivamente, proprio come autoritratto di gruppo, da cui deriva anche il titolo ossimorico Vecchi ragazzi.

Questo opus magnum  mi ha fatto venire voglia di smontarlo pezzo per pezzo per capire i trucchi del mestiere. La struttura è divisa in tre parti: Scuola d’amore; Gli anni bui della  luce accecante  e D’amore e di guerra], una struttura poi frammentata  in piccoli paragrafi titolati, quasi a organizzare una mappa labirintica che costruisce, attraverso flasch back e fughe in avanti, il delinearsi di un grande affresco storico del Novecento (una operazione simile al film Novecento di Bernardo Bertolucci): dal Fascismo al Sessantotto, agli anni del Terrorismo brigatista e nero, al crollo delle Torri gemelle, fino a oggi, fino al momento in cui il romanzo chiude il proprio palcoscenico.

L’affresco storico è visto attraverso il filtro della soggettività della protagonista, la vitalissima imprendibile Gioia (e non è un nome qualunque, perché alla fine di tanti eventi tragici pubblici e privati prevale l’ottimismo, la speranza, l’inno alla vita). Chi narra, chi scrive è un soggetto femminile. Quindi è anche un romanzo “di genere”, che mette a fuoco le sensazioni, i sentimenti, i dubbi, le ambiguità, le vittorie dell’emancipazione e i fallimenti delle utopie di un soggetto femminile che ha attraversato in maniera subclinica (secondo una efficace formula di Edgar Morin) tutte le sacrosante rivoluzioni culturali degli anni Sessanta e Settanta, Femminismo in primis.  E questo è forse l’aspetto più interessante, più riuscito, più coinvolgente per una lettrice donna, un femminile, comunque, non appiattito sulla ideologia, ma piuttosto, per dirla con Teresa De Lauretis, “sui generis”.

Elda Torres si serve di generi diversi, dal romanzo storico al poliziesco, al romanzo familiare [non a caso inserisce anche le ritrovate memorie del padre e poi quelle della madre, rischiando, a me pare, la deriva centrifuga del racconto, per arrivare a delineare addirittura un romanzo genealogico], e toccare anche le forme del  romanzo psicologico, di qui l’uso della prima persona come voce narrante. In una intervista,  Elda ha detto due cose illuminanti. La prima: “A ogni materia la sua forma” (da qui deriva la natura mista dei generi letterari applicati). La seconda,  che fa capire quale è il movimento della rappresentazione: “La forma giusta era dunque quella dell’io narrante dettata dal fatto che era quella che mi permetteva di narrare la storia dall’interno. L’occhio doveva andare dal dentro al fuori”.

 

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Dunque, schematizzando, come in un sistema di scatole cinesi, la narratrice entra e esce da un genere all’altro:  c’è il romanzo di un “io donna”; ma anche un romanzo sul rapporto di coppia e sull’amore (sulla coppia aperta degli anni 60-70); quindi, il  romanzo familiare, ovvero il romanzo genealogico; c’è poi il romanzo di una generazione; infine, il romanzo del Novecento, l’affresco totale, fra storia, storia sociale, cronaca (dove primeggia la giornalista). Non basta: si incontra pure il  romanzo giallo  (con la storia di Veronica, la donna trovata cadavere in incipit).

Non voglio insistere oltre sulla sapienza architettonica della narratrice e sulla consapevolezza teorica e critica con cui affronta la materia della propria storia fatta di storie, che danno vita a una stratificazione plurima e quasi ipertestuale.  C’è, a questo proposito, una bella intuizione di Stefano Lanuzza, che chiarisce benissimo quanto finora ho cercato di dire:  “Quest’opera d’ampio respiro, [è una] trilogia unitaria e [un] opus magnum… che per la sua impostazione sottilmente metacritica costituirebbe la propria stessa esegesi”.

L’importanza dell’incipit. E se – come ha dimostrato uno splendido studio teorico sugli incipit dei romanzi, fatto alla Università di Harvard da Giuliana Adamo (una allieva di Giulio Lepschy) – l’inizio di un romanzo è  la chiave per capire l’anima dell’intera trama, ecco che questo corpo esanime, straziato di Veronica, una eroinomane dai capelli rossi, trovato su una spiaggia, arriva ad avere una importanza centrale. come se in questo romanzo con forti implicazioni autobiografiche, e ricco di miriadi di personaggi femminili, fra i quali la madre Elena (con le sue depressioni e forse uno stupro in giovane età) questo incipit sta a emblematizzare la chiusura dei conti e forse la punta del’iceberg di un fallimento di una sin troppo libera, avventuriera soggettività femminile, l’emblema di quella  libertà ostentata e coraggiosa che ha contraddistinto la generazione delle donne che hanno lottato per l’emancipazione pagando di persona spesso con fallimenti esistenziali se non con la propria vita. Veronica è il contraltare necessario, la controfigura di Gioia. Il suo lato notturno e sacrificale.

Penso, per contestualizzare questo tema di una soggettività femminile allo specchio degli anni Sessanta Settanta, a opere-documentari di Alina Marazzi come Un’ora sola ti vorrei e Vogliamo anche le rose, fatti su diari di donne, forse perché credo che Vecchi ragazzi abbia la natura e la forza di una bella sceneggiatura per un film.  Molto forte è la prepotenza delle immagini rispetto alla dimensione verbale. A p. 200 leggo: “guardavo tutto come fossi al cinema”, e a p. 254: “Mi sento un occhio che guarda, un orecchio che ascolta, una mente che registra”.

Fra le righe dei fatti spuntano frammenti di un piano di riflessione sociologica molto profondi. Sono come delle finestre di autocoscienza. Ne cito una sola:

 

Questo mio tempo-spazio privato, rubato a lui, alla famiglia, lo irritava, ma si guardava bene dall’ammetterlo. In realtà era ambivalente, da un lato apprezzava la mia creatività, dall’altra tendeva a demolire quella mia occupazione considerandola un di più che turbava l’andamento del ménage familiare.

 

 

 

Non è un caso che la scrittura sia, come dire, non firmata, cioè priva di impennate liriche o divertissement sperimentali, o pieghe espressionistiche. Voglio dire che questo non è mai, proprio mai, un romanzo lirico. La scrittura è chiara, secca, referenziale, adatta a produrre abili zoommate, grandi primi piani, e improvvisi flasch back, che attualizzano, anzi contemporaneizzano i fatti narrati, come su uno schermo che sincronizza tutto ciò che avviene nel passato e nel presente. Elda usa e manipola il tempo come caucciù e descrive lo spazio con modalità fotografica e cinematografica. Sa descrivere e, quindi,  descrive molto lo spazio che la circonda, senza lirismi. Anzi con oggettività realistica, fotografica. Mi chiedevo come sarebbe stato bello il romanzo con un apparato illustrativo fotografico. Foto private e  foto storiche sul genere di alcuni fototesti di Lalla Romano e Michele Mari.

Siamo davanti a una vera e propria  scrittura realistica. Credo che si debba fare attenzione alla ricchezza e proliferazione dei dialoghi, a quella specie di corpo a corpo fra i personaggi. Gioia/Max; Gioia/l’editore maniaco; Gioia/il Padre; Gioia/ la Madre; Gioia/i figli  etc etc.

Si può parlare di autofiction? Cioè di una autobiografia reinventata? Ho riconosciuto alcuni fatti della vita di Elda  (il matrimonio con un affascinante e bizzarro intelletuale straniero; la caduta rovinosa dalle scale prima di una conferenza), tutto condensato e spostato, però, come nei sogni, come nell’invenzione romanzesca. Ma a rispondere a questa un po’ banale domanda – autofiction? – ci pensa lei stessa in maniera ironica in una intervista:

 

Qualcuno tra quanti hanno letto il mio romanzo Vecchi ragazzi mi ha chiesto se rispecchiasse la mia biografia. Sarebbe come dire che lo scrittore di gialli abbia in sé la tendenza a commettere omicidi. É chiaro che nel personaggio di Gioia, nella sua sensibilità, ho trasfuso anche una parte della mia, ma non è il mio vissuto quello raccontato a parte i riferimenti alla cronaca degli anni di piombo che ormai fanno parte della storia.

 

In questo opus complesso e apparentemente centrifugo c’è anche l’impronta del romanzo di formazione. In fondo si potrebbe parlare di una “educazione sentimentale” dei nostri tempi disincantati. La prima parte si intitola, non a caso: Scuola d’amore (mi veniva a mente Scuola di nudo di Walter Siti); e la terza D’amore e di guerra. L’amore è un tema forte del libro, un tema sviluppato a volte in maniera quasi trattatistica [l’amore al tempo delle lotte operaie e studentesche, del femminismo e del terrorismo].  Non credo serva ricordare che il primo libro di racconti di Elda si intitolava Storie d’amore e di rabbia.  La seconda parte, per me la più bella e emozionante di Vecchi ragazzi, si intitola Gli anni bui dalla luce accecante (solo la dimensione ossimorica può evocare le contraddizioni insolubili della nostra vita passata).

La vita di Gioia si intreccia verticalmente con la storia dei genitori, dei nonni, e dei figli, e orizzontalmente con quella degli amici, dei compagni di strada. Per l’appunto la dedica recita: “A tutti  gli amici, anche a quelli che non ci sono più”. C’è infatti, qua e là, un tono quasi testamentario, solo così mi spiego il finale a lieto fine, armonicistico, che a me suona un po’ posticcio. Ho amato invece le dissonanze e la Gioia che nonostante il nome “è attratta dalle catastrofi”. C’è l’ultimo paragrafo, inserito come un fuori le mura, intitolato Dalla separatezza all’unità, dove troviamo Goia e Max invecchiati sereni e uniti, i figli sistemati e il nipote Marco che sulle terre del bisnonno gira con i manuali di coltivazione biologica. La scrittrice ha sentito il bisogno di finire in armonia, con un quadro ricomposto (un po’ come Dickens in Great Expectations).  Del resto Elda stessa ha più volte affermato di aver voluto scrivere una “storia didattico-morale… con un esito felice. Cito dalle ultime pagine del romanzo, quelle che mi piacciono meno:

 

Ero passata attraverso tunnel di buio pesto. Avevo lottato controvento ostinata quanto la bufera. Ora mi lasciavo cullare e portare dalle correnti per arrivare senza fatica là dove ero diretta. […] Niente mi apparteneva e mi apparivano come sogni gli amori furiosi, le fatiche, la bellezza del corpo. Restavano gli affetti immutati negli anni. L’unica vera ricchezza che avessi.

 

Io, che sono una nota catastrofista, amo la Elda del Cupio dissolvi, dei Nodi al pettine, dei Conflitti (tutti titoli di paragrafi interni), l’Elda cosmopolita che va dalle Marche a Parigi, da Firenze a Roma, a Bruxelles, al Brasile. Mi immagino che non butterà mai la spugna per ritirarsi con Max a fare non più i vecchi ragazzi ma i vecchi vecchi. Non nascondo che quando vedo i miei amici di una vita, li vedo sempre e comunque come vecchi ragazzi, quasi come ragazzi mascherati da vecchi. Eppure molti di loro sono addirittura morti ormai.

Aggiungo poche righe sulla genesi del libro. Elda ne ha parlato più volte. Questo libro è stato ideato sin dagli anni Ottanta e aveva al centro, se ho ben capito, la vita di coppia ed era stato pensato in terza persona, poi è stato ripreso dopo molto tempo ed è stata scelta la focalizzazione interna, una scelta che ha permesso una più libera organizzazione dei racconti, un nomadismo di scrittura che evita la compilazione lineare degli eventi, ma li fa scaturire per sinapsi ed echi, per arricchirli efficacemente di un controcanto di riflessione, un controcanto, come dire, di rimpianti e di rimorsi, molto suggestivo, che stempera i confini del reale rendendoli nella loro inesauribile complessità.  Voglio dire che siamo di fronte al romanzo di un “io” che però è anche una “lei”.  Fra distacco e vicinanza.

Sottolineo anche che le morti nel romanzo hanno grandi risonanze simboliche a cominciare da quella del padre. Fra perdite e ritorni si fa il bilancio esistenziale di una figura di donna forte e insieme fragile, ma si fa – torno a dirlo – soprattutto il ritratto di una generazione. A un certo punto nel romanzo si ricordano i possibili titoli di un’opera romanzesca in fieri: Romanzo di gruppo: Cronaca di un successo mancato; le mille vite di Gioia Scrabb; Generazione. Insomma, Elda Torres si dimostra autosufficiente anche nell’autointerpretazione critica. L’autrice spiazza il ruolo del lettore, lo prende per mano e lo guida o la fa perdere per poi ritrovarsi nel labirinto dei suoi spostamenti spazio-temporali.

Sarebbe interessante, se non fosse pedante, riportare tutte le definizioni che nel romanzo si dà della scrittura. Del tipo: “La scrittura per me ha avuto un ruolo salvifico”; oppure “La scrittura come ruolo di spurgo”. Ma mi fermo qui.

In sintesi, raccomando la lettura di questo grande romanzo di 400 pagine, dove da una storia ne nascono cento altre e da queste cento ne spuntano ancora cento e così via, mantenendo viva l’arte del raccontare, giostrando con maestria fra genealogie, generazioni e generi letterari.

Elda è una vera scrittrice, colta, piena di sovrabbondante energia (è giornalista, critica d’arte, poetessa, romanziera, organizzatrice culturale)  e sa narrare (lo sapevo già perché ho letto tante cose sue, che ha donato all’ “Archivio per la memoria e la scrittura delle donne”), ma con Vecchi ragazzi ha scritto il suo capolavoro: ovvero, in un’epoca di pod.cast e di tic-toc, di narrazioni di pochi minuti, ha scritto, – e ne sono sicura – un classico di 400 pagine che è anche la storia di una difesa e di un riscatto della nostra  generazione che si avvia al tramonto, una generazione che si accorge – come dice la nostra comune amica Anna Scattigno – che “si  é fatto presto tardi”,  ma che ancora, consapevole nel bene e nel male del proprio ambiguo e insopprimibile giovanilismo (vecchi ancora ragazzi dentro, pieni di utopie e speranze), questa generazione non si rassegna a buttare la spugna.

 

Di Ernestina Pellegrini

 

 

 

Su Vecchi Ragazzi                                                                   Elisabetta DeTroja

 

É stato un piacere per me la lettura di questo romanzo, è stata una lunga conversazione  tra il testo, il confronto con l’autrice, i punti di vista, le discussioni.

Siamo immersi in un groviglio di cose, di presenze, di realtà fatte in serie, riproducibilità tecnica diceva Benjamin. Quando giro per le librerie non so su cosa posare l’occhio, cosa merita attenzione: quello è il volume di un giovane scrittore promettente, quell’altro è tra i finalisti di un premio importante, questo romanzo invece dal titolo molto esplicativo Vecchi ragazzi ha, oltre a tanti meriti, quello di essere un lavoro, sottolineo lavoro come dire artigianale in cui il narrato subisce l’assedio della forma che scava, precisa, affonda e si ritrae come un inesorabile scalpello che non lascia tregua. Vi sentiamo la mano che dispone nello spazio, corregge, pulisce dai detriti, l’occhio vede finalmente l’angolo giusto, sa essere immobile  o muoversi velocissimo, mettere a fuoco o sfocare. Forse è così per me che l’ho letto prima della sua stesura finale, molto complessa e molto studiata.

Nella quarta di copertina è stato definito un romanzo di formazione, quelli buoni lo sono quasi tutti, dal buio e dall’errore alla luce e alla saggezza, dalla Divina Commedia, romanzo poetico, a  Pinocchio, romanzo didattico, anche se il traguardo: la consapevolezza, definiamola così, talvolta  si identifica  con la morte come ne I dolori del giovane Werther.

Vecchi ragazzi è piuttosto, a mio parere, un romanzo di generazione, legato a determinati anni, come i romanzi della Resistenza o alcuni di Pasolini e forse i lettori privilegiati, quelli che lo capiranno meglio sono quelli che sono stati giovani negli anni 70/80. Infatti non si può scrivere per tutti, anche se io non ho l’autorità di questa affermazione perentoria che è di Sartre che scrive così in Che cos’è la letteratura. Lo scrittore sceglie i suoi lettori. Lector in fabula, si parla proprio di te ragazzo degli anni 70 e anche un po’ più in là.

Protagonista è Gioia che parla in prima persona, una narrazione a metà tra autobiografia e Journal intime. Naturalmente è una scelta precisa, narrativa, che fa agire, vivere e pensare una donna di quella generazione. Gioia è insegnante quando può, giornalista precaria, madre a tempo pieno o quasi, figlia intermittente, amica quando accade, moglie stagionale, ma scrittrice perenne, tra un articolo da terminare e una lavatrice da stendere. Ma una donna che lavora, soprattutto di testa, in quegli anni è vista male; è tempo sottratto al resto, è indifferenza agli affetti, egoismo, superbia, snobismo stupido. La protagonista sottolinea più volte l’incomprensione di chi la circonda, diversa quella della madre da quella del marito. La signora borghese, sua madre, e Max, l’intellettuale progressista, fascinoso, giramondo e che sa tante lingue, sono ideologicamente lontanissimi, ma arrivano alle stesse negative conclusioni su quella strana mania di Gioia.

 

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Mentre leggevo il romanzo, rileggevo alcune poesie di Pasolini, tra cui una lirica dal titolo Al Principe, che dice così: per essere poeti bisogna avere molto tempo, ore e ore di solitudine sono il solo modo perché si formi qualcosa che è forza, abbandono, vizio, libertà, per dare stile al caos. Quindi è un gran lusso organizzare il caos, Gioia l’ha capito e vuole trattenere il tempo che come sabbia le scorre tra le mani, vuole trattenerlo per infilarsi talvolta in quella stanza tutta per sé che ogni tanto, soprattutto di notte, le permette l’accesso. Ma è sempre un lusso e una fatica. Un corpo a corpo con l’altro, il marito, i figli piccoli, la mancanza di soldi, un testo non accettato, una avance respinta. Ma il corpo a corpo più difficile, l’eterno duello, è secondo me la competizione quando due coniugi sono due intellettuali. La rabbia del marito se un po’ di successo scalda l’animo della donna. Leggo un testo della Bachmann, tratto da Trentesimo anno, scritto nel 1961: Voi mostri, dalle mani forti e irrequiete, dalle unghie pallide e corte, voi con la vostra gelosia nei confronti della donna, con la vostra arrogante indulgenza e la vostra tirannia, voi ingannatori e ingannati. Ma non provateci con me, con me no.

In Gioia manca questo duro giudizio ma è presente il dolore e lo stupore per ciò che può accadere così a contatto di gomito, sotto lo stesso tetto. Mentre preparavo questa relazione Diego Salvadori mi ha mandato da fare un referaggio e leggevo la triste avventura di una donna che anche lei voleva scrivere. Era una siciliana, si chiamava Marianna Cotta, nata nel 1841, morirà poi giovane a trentasei anni. Il suocero le impediva di scrivere perché diceva che lo scrivere rende le donne disoneste. Questa affermazione mi ha molto colpito.

Gioia viene dalla provincia, da una famiglia borghese apparentemente tranquilla, è una ragazza maledettamente giovane in quel lontano ’68, cresce e si forma in quella fase della storia italiana, dalla contestazione al rapimento di Moro, al craxismo, alle stragi di mafia. Una vita personale immersa in un contesto storico e sociale molto ben delineato. Una storia che spezza miti e nostalgie, secca e cruda e soprattutto sistematica. Gioia è una ragazza intelligente, la provincia le va stretta e quindi rinuncia alla solidità tranquilla per il rischio affascinante di andar fuori, nel suo caso a Parigi. Un’avventura che può anche andar male o rivelarsi inutile. Sono molto belle le pagine su quella provincia da lasciare, con le abitudini, i condizionamenti, le scuole, i primi amori, le delusioni, i sogni, le rabbie. Mentre leggevo mi venivano in mente le immagini di un vecchio film del ’60: I delfini di Francesco Maselli con Tomas Milian e con una scompigliata Claudia Cardinale sempre in sottoveste. La storia si svolge ad Ascoli Piceno. I delfini, figli scontenti di papà che vorrebbero tentare l’evasione ma poi rimangono impigliati nella ditta di famiglia a rimuginare sogni mentre corrono sul litorale con la spider decapottabile comprata dal padre. Mi venivano in mente certe stanchezze allucinate dei I Vitelloni e la meravigliosa profondissima superficialità de Il Sorpasso di Dino Risi. Gioia corre il rischio e la sua vita sarà faticosissima, mi sento quasi sulle spalle la sua stanchezza. Con pochi amici fluttuanti, attimi magici ma rari con Marx e i figli e soprattutto il lavoro, la ricerca di un lavoro spesso più dura talvolta del lavoro stesso.

Quello che trovo particolarmente felice è la chiarezza di linguaggio che nel suo rigore definirei classico, senza ridondanze o scivolate inavvertitamente curiali spesso presenti quando sono le persone troppo colte a scrivere. Tutto scorre, attimo dopo attimo, tra blocchi di storia personale passata e azione presente in una fluidità di arresti e riprese, che si interrompono nel loro progredire.

Interviene la memoria che è soprattutto storia di famiglia, di persone care, talvolta presenti con i loro scritti che per caso sono stati ritrovati e così inizia un nuovo racconto. La Ortese dice che la letteratura è memoria di patrie perdute, il riconoscimento e la melanconia dell’esilio, quello che resta della vecchia casa di Gioia dopo la morte dei genitori e il ritorno all’isola, alla casa dopo il viaggio. Il viaggio della vita. È proprio nella lontananza del tempo che si raggiunge il centro delle cose, la loro verità. Gioia non scarta ma trattiene, sceglie ma protegge, ogni vecchio foglio gettato è un pezzo d’anima. Un grande interrogativo: scartare ma che cosa? È giusto scartare?

In questo romanzo si assiste alla grande delusione delle ideologie, la meglio gioventù è stata un disastro. I volti, i profili emergono da un passato di lei giovane combattente, come vecchi ritagli di giornale conservati in un libro e ignorati per anni. Alla dimensione visionaria degli anni 70 segue uno scacco inesorabile quasi irraccontabile ma la nostra scrittrice invece riesce benissimo a raccontarlo. I visionari veri sono pochi, i gregari sono numerosi, rumorosi, noiosi e si dividono le piccole alienazioni, fatte di elettrodomestici, di sbronze e di sesso. Ritrovare i vecchi amici è imbattersi in spettri irriconoscibili, la storia di tutti è una specie di pozzo nero dove si finisce per cadere. Meglio non incontrarsi più, forse. Leggo a questo punto un brano:

 

Succedeva di rado che rivedessi per caso qualche personaggio del mio passato. Era capitato con  Yanis. Una mattina d’inverno fredda e ventosa l’ho trovato al mercato in piazza S.Ambrogio. Era diventato un vecchio cencioso. Mai avrei immaginato che quella figura così dimessa fosse lui.

 

 

 

Mettere a fuoco sconfitte personali e quelle storiche. L’illusione sessantottina si ripeterà periodicamente negli anni nella storia italiana, questa illusione/delusione credo sia rappresentata dagli amici e dagli amori con cui si vive intensamente  qualche stagione e che poi vengono risucchiati dalla vita. E dalla risacca emergono reperti inaspettati: un vecchio camper, una felpa bucata, la tunica arancione di un convertito che ballonzola sulla spiaggia, oppure un corpo, forse annegato, forse ucciso, quello dell’amica Veronica, un concentrato di vizi, mode, aspirazioni, un turbinio di vita e di morte, ritrovato sulla riva del mare come il cadavere di Wilma Montesi, tra politica, cocaina, intellettuali e ragazzi di borgata.

Veronica, donna dolorosa, a costante intermittenza nella vita di Gioia. Se la storia della protagonista finisce pacificata tra marito, figli, parenti, nell’oasi ritrovata della vecchia casa di famiglia, mi affascina molto quella scritta a inchiostro nero di Veronica, la grande ingannatrice, imbrogliona, la femme fatale che attraversa non la storia, ma le mode della storia e soprattutto le mode della politica, destra sinistra, sinistra destra, sembra di essere in una canzone di Gaber, e che finisce, la Veronica, sulla sabbia del Mare Adriatico come una medusa trascinata dalle onde che i bambini osservano e scanzano perché forse ancora brucia.

In questo strano e difficile romanzo con tanti protagonisti e personaggi perché la vita è lunga, si apre quello che negli anni 70 si chiamava conte en abyme e che ora che sono cresciuta chiamo racconto nel racconto: un racconto giallo. Chi ha ucciso  Veronica? Suicidio, morte accidentale, omicidio o, come si dice oggi, femminicidio? Qui viene fuori un altro personaggio: il commissario Saltalaquaglia, erede italiano dei tanti segugi americani che vanno avanti a caffé, notti insonni e impermeabili stropicciati, ma anche un certo Simenon giovane: Maigret certo ma anche il fedele Lucas dai piedi doloranti per i troppi pedinamenti. Loro due che offrono cappuccino e croissants alle prostitute confidenti perché parlino ma anche perché vogliono loro bene. E sono belle, molto belle, le convulse pagine vorticose sul perché Veronica è stata uccisa tanti anni prima. Le tracce, trovate per caso o cercate puntigliosamente, creano la solida maglia degli indizi in un reticolo narrativo rigoroso e molto ben costruito, dal cui cilindro esce il coniglio bianco: il poliziotto corrotto, l’insospettabile omicida. Ora aspettiamo un giallo dalla scrittrice e che Saltalaquaglia diventi il nostro nuovo Ingravallo.

Di Elisabetta DeTroja

 

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