IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE di Bernardo Soares, di Ferdinando Pessoa
È una giornata di pioggia umida e sottile.
Non ho ombrello, e anche se lo avessi non lo aprirei: la sensazione dell’acqua dall’alto mi fa sentire qualcosa simile alla felicità.
Entro in libreria e chiedo, con un sorriso cristallizzato dalle gocce di pioggia, un consiglio per l’acquisto di un romanzo spensierato, soft, stupidotto, oserei dire. Non mi voglio impegnare per niente.
Esco con il libro dei libri, con l’inquietudine di aver comprato qualcosa che esula dalla mie premesse: la vedo (l’inquietudine) negli occhi della commessa e vedo anche quel grande punto interrogativo al centro della sua fronte: non è il libro che mi aveva consigliato. Giro e rigiro fra le mani “Il libro dell’inquietudine” di Fernando Pessoa, nuovo di zecca. Ma che strano, che strana la mente, l’attrazione inconscia, la calamita che cerca il suo magnete. Inspiegabile. Sensazioni. Un sentire sordo all’interno verso quell’esterno materializzato in 337 pagine che si incollano alle dita per un strano effetto.
E così mi sono trovata a leggere la storia in osservazioni, appunti, considerazioni, riflessioni, accettazioni e negazioni di quell’amico immaginario – bambino dall’infanzia che non ha vissuto, adulto dall’esistenza ingabbiata in un registro contabile – di un scrittore che amava sdoppiarsi, triplicarsi, quadruplicarsi per creare un suo café lettéraire.
Mi sono trovata in quello stato a metà tra la coscienza e l’incoscienza, tra l’esperienza del reale e la percezione del sogno in una lirica poetica di un grande esecutore di pitture di parole.
Una marea di versi animati dalle sensazioni, da quel sentire di non appartenenza agli istinti umani ornati da azioni inutili, bandiere di vittorie e di disfatte; di pietre accumulate e poi distrutte. Palazzi e macerie sotto il sole e la pioggia di Lisbona, lungo Rua dos Douradores, in un percorso trasfigurato da fantastiche immagini di una mente il cui pensiero, suo malgrado, non si ferma.
I colori dell’anima che non si riconoscono negli oggetti pur facendone parte.
Che tristezza e che gioia, che ansia e che pacatezza nello scrivere il tutto, scongiurando, invano, una vita vuota.
Leggere Soares, semplice contabile di una ditta di tessuti, mi ha fatto sentire una regina in un meraviglioso castello di carta. Mi ha fatto entrare dalla porta immaginaria della fantasia, nei sogni a occhi aperti.
Non mi ha procurato ansia, la lettura. Anzi, ho cercato di sognare con Soares, amico silenzioso, osservatore di anime e di cose; guerriero senza spada, eroe senza coraggio. Mi è dispiaciuta la sua sofferenza nel non poter dormire; la sua insonnia che lo ha privato di una morte apparente ma necessaria. Sonno, sonno e sempre sonno.
Ma ho trascorso con lui due o tre notti insonne con vero piacere: siamo stati, io e lui, scene vive sulle quali passano svariati attori che recitano svariati drammi, nelle strade buie dalla luna assente.
Ho riso leggendo. Credetemi, mi sono veramente divertita nel constatare, negandolo nel contempo sia chiaro, l’inutilità della corsa umana, la sua vanità, la sua presunzione di dominare il mondo, mondo che non fa altro che renderla schiava: ceppi alle caviglie e ai polsi in una cella senza pareti, infinita.
Beato colui che non ha immaginazione, felice, come le formiche, della sua animalità istintiva priva dell’imperato pensiero. Beato colui che pur sapendo che il tutto è nulla, spalanca le segrete dei sogni, quelle senza muri, senza linee geometriche, senza confini respirando le proprie sensazioni che attingono da una materialità circostante che non sa di esistere.
Oh caro Soares, aveva ragione il tuo amico Pessoa, è bello leggerti negli slanci lirici di consapevolezza della tua (nostra) esacerbata sofferenza, nel delirio descrittivo del tuo magico e surreale modo di vivere, il tutto celato nella perfetta maschera cucita con i cenci di impiegato di concetto.
E se è vero che indosserai sempre questa maschera carnale, schiva e insignificante, è pur vero che, esorcizzando il tuo mal di vivere nelle parole scritte con violenza creativa, sei riuscito, alla faccia del tuo pessimismo, scetticismo e di tutti gli -ismo, a saper incarnare le parole in una realtà manovrata da fili invisibili di un bizzarro creatore e/o dai pazzerelli déi dell’Olimpo, e renderle più reali del reale stesso. Sei il Poeta per eccellenza fra i falsi poeti di un’anima schiacciata dalla presunzione dei titoli.
Grazie Soares/Pessoa, grazie veramente per il vago senso di perdizione che mi ha procurato tutta la lettura, poiché mi ha fatto sentire viva nella metamorfosi dei vaneggiamenti e in quei viaggi per traslazione di mete sempre rinnovabili.
E ancora grazie giacché le tue parole mi hanno permesso di sentire, in tutta quell’umanità per cui si prova nausea e fastidio, la meschinità limitante di ogni essere che ne fa parte e, per questo, -per qualche giorno – ne ho provato sincera compassione e pena. Ma tutto muta pur rimanendo statico nel suo vortice fittizio.
Giuro, mi sono sentita grande dall’alto del mio trono di carta igienica, con la corona di ossa di pollo, e con lo spettro di zucchero filato stretto nella mano destra contrapposta alla mano sinistra, questa la mano del cuore che non ha bisogno di orpelli, piena di aristocrazia interiore, nobilità nel non credere in un credo selezionato in piccole, gelide celle, consumato dalla stupida certezza del finito.
Ne consiglio la lettura da affrontare con molta disinvoltura, con la premessa di calarsi, senza remore, nella nebulosa aria destinata a stralunati ironici sognatori. L’approccio deve essere soft, per quanto sia possibile, per non cadere nel tedio, parola ripetutamente citata nel testo.
“Ma guarda un po’ io, qui, in questo quarto piano, a interpellare la vita! a dire ciò che le anime sentono! a fare della prosa come i geni e i famosi! Io, qui, così!…”
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