IL LUPO DELLA STEPPA, di Hermann Hesse
“La vita è un teatrino, figlia mia”.
Lo diceva sempre mia madre, buona donna.
Lei non aveva mai letto né Hermann né niente di simile, eppure molte considerazioni le ho ritrovate ne “Il lupo della steppa”.
Già, era una donna che aveva vissuto le sue poche gioie e suoi immensi dolori, fallimenti e piccole vittorie. Osservava il ridicolo e, inevitabilmente, ne faceva parte. Ha imparato a fregarsene e a riderne soltanto alla fine.
“Non bisogna prendere la vita troppo sul serio: ci si isola, ci si soffre, ci si ammala. Non ne vale la pena, figlia mia”
Tante e tante altre sagge o ingenue riflessioni: il male di vivere, l’ipocrisia della società, il sapore greve e dolciastro dell’incerta e imprevedibile esistenza.
Mia madre era una donna spontanea e sincera, onesta nella sua artigianale intelligenza, purtroppo ancorata a ricordi puerili e ai giudizi di una società che imponeva e impone un suo infelice cliché di equilibrio e moderazione, che giudicava e giudica su simmetriche illusioni: l’intellettuale di qua, l’ignorante di là, gli adattati e disadattati, i ricchi e i poveri, i concreti e gli ideasti, i buonisti e i realisti, i cittadini del mondo e i nazionalisti, il delinquente e il sant’uomo etc etc: il tutto sul filo del rasoio. Il rasoio lo conosce bene il nostro protagonista Harry Haller (Hermann Hesse)!
Leggere “Il lupo della steppa” è scontrarsi con tutte queste dimensioni, con tutto l’essere umano che popola il pianeta, un caleidoscopio di personalità multiple racchiuse in un uomo.
Imparare a frantumare la precaria unità dell’ “io” e scoprire con la magia, fonte inesauribile di fantasia e di immaginazione, di poter creare un bel mazzo di figurine, ruoli che ci affibbiano o ci auto-appioppiamo, con cui giocare a vivere senza essere soltanto lupo (istinto) o soltanto uomo (ragione).
E risolvere i lancinanti dissidi fra desiderio (attrazione) e paura (ragionamento), tra
sublime e mediocre, tra unità e massa con l’accettazione umoristica di tutta una moltitudine infinita di ruoli.
Tutto dipende da come si guarda, si esplora, si considera, e con quanta onestà si recita e si ride.
La struttura del romanzo ne è una prova lampante.
Hermann (Harry Haller) si osserva attraverso la prefazione del curatore, si esamina nella dissertazione del lupo della steppa, si scopre attraverso gli occhi della fantastica e seducente Hermine.
Entra nel teatro della sua vita, calca i palchi e impara a ridere di se stesso e di tutta quell’umanità che da sempre lo attrae e lo respinge, ama e odia, e con cui ha lottato, fino allora, come un Don Chisciotte ma senza la geniale pazzia della leggerezza e della passione.
Nulla è certo se non la morte e, paradossalmente, è questa con la sua certezza a rendere immortale l’uomo.
Signori e signore diamo inizio, ogni giorno, allo spettacolo e non dimenticate di dare voce alle risate e di applaudire prima che il sipario si chiuda.
Se la ride anche Mozart!
“Vivere nel mondo come se non fosse il mondo, rispettare la legge e stare tuttavia al di sopra della legge, possedere come se non si possedesse, rinunciare come se non fosse rinuncia: tutte queste esigenze di un’alta saggezza di vita si possono realizzare unicamente con l’umorismo”
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