IL PAZIENTE DELLA STANZA 19, di Zoran Žmiric (Infinito Edizioni)
PARTE 1 di un libro importante
“Ho spento le persone come fossero delle candele”
Rimango nella mia zona di comfort e passo da un conflitto ad un altro.
Magari qualcuno può chiedersi come facciano questi temi ad portarmi conforto. Semplice: non me lo so spiegare.
Questa è la storia del paziente della stanza 19, Vanja, che ha un nome che va bene sia per gli uomini che per le donne.
Vanja che a 19 anni è stato arruolato nell’esercito di difesa jugoslavo, lui, un ragazzo croato a cui, della guerra, non fregava nulla.
Vanja che cercava i suoi simili tra i soldati usando parole come “The Cult”, “Bauhaus”, “The sister of mercy”, quando quasi tutti ascoltavano solo musica folk.
Vanja che ha spento diciannove persone come fossero candele.
Vanja che si vergogna per quello che è stato, per quello che è stato costretto a fare per non morire per primo.
Vanja che non sa che cosa sarebbe potuto essere se la guerra non gli avesse rubato il futuro.
È un romanzo di quelli che hanno passi che dovrebbero essere condivisi con tutto il mondo quasi ad ogni pagina, era davvero tanto che non mi capitava tra le mani un libro di questo calibro.
Già la prefazione di Anita Vuco (la traduttrice e curatrice della collana Mansarda di infinito edizioni, a cui appartiene il romanzo di Zoran) è di una potenza incredibile. Ho avuto degli scambi emozionanti con lei che mi hanno confermato le sensazioni positive arrivate leggendola.
PARTE 2 di un libro importante
“Perché siamo pronti a vedere una persona come matta solo perché sa ciò che gli altri non sanno?”
Il romanzo di Źmirić non è poi così lungo, sono poco più di 200 pagine e si potrebbe pensare di leggerlo in due o tre giorni, ma credo sia difficile. È impegnativo, non tanto per la scrittura – in fondo è un monologo che Vanja fa con uno psichiatra – quanto per i contenuti. L’ho già detto che è un libro che contiene elementi preziosi sotto forma di parole: certe frasi sono da rileggere due o tre volte. Non perché siano difficili da capire, ma perché sono forti, dirompenti, e allora le rileggi, per coglierne le sfumature, per seguire il flusso dei pensieri che si generano nella tua mente, per metabolizzarle.
Dicono che solo i matti, gli ubriachi e i bambini dicano la verità. Probabilmente Vanja è più un matto (mentre si racconta è un adulto sobrio che è stato un ragazzino ogni tanto ubriaco), ma la sua è veramente follia o è solo conoscenza di una realtà e consapevolezza che a molti sono oscure?
Ci sono considerazioni sulla religione, sull’Europa, sulla politica, sull’umanità, sulla disumanità che sono folgoranti, riflessioni e domande che non mi ero mai posta, c’è un ribaltamento di prospettive a cui può giungere davvero solo un matto che però a me matto non sembra. Anche se ha operato su se stesso una mutilazione degna di essere studiata da chi conosce – forse un po’ di più- i meccanismi reconditi della mente umana. Ma i traumi della guerra alterano la mente o aprono visuali diverse?
PARTE 3 di un libro importante
“Perché cosa c’è di più giusto della norma giuridica? Quindi, la colpa collettiva esiste o no?”
Durante il Terzo Reich venivano uccisi ebrei e zingari nel rispetto di leggi approvate all’unanimità nel 1935.
Di chi è la colpa se siamo l’unico animale votato all’autodistruzione? Possiamo ritenerci superiori per intelligenza e giudicare l’intelligenza di chicchessia? Siamo esseri che tendono alla sopravvivenza, ma una volta scoperto che siamo diversi iniziamo a massacrarci, e ognuno di noi ha dei buoni motivi per ritenersi nel giusto. E tendiamo ad uniformarci alla parte che ci rappresenta di più, ritenendoci superiori all’altra. Quindi, se l’animo tifoso della piccola gente porta ad odiare qualcuno di diverso quotidianamente non dovrebbero preoccuparci molto di più le minacce di guerra delle grandi potenze. Sono solo l’amplificazione di noi gente comune.
Qui tornano le parole di Anita: “traduco per sconfiggere la paura che ci possa essere impedito di ragionare. Traduco perché l’odio non può averla vinta.”
Quando ho iniziato a parlarvi di questo libro non sapevo perché i libri che parlano di conflitti recenti mi affascinano così tanto. Mano a mano che andavo avanti nella lettura mi convincevo che avrei trovato la risposta nelle parole di Vanja. Ed è stato così. Certe storie mi affascinano e mi confortano perché mi aiutano a capire, mi fanno conoscere e quando si conosce si smette di avere paura, diventa più facile smettere di odiare.
Credo che la colpa collettiva esista, è giusto adattarsi alle situazioni, ma non bisogna farlo in modo passivo, si deve ragionare e capire qual è il limite oltre al quale ci deve ribellare.
Però. Però Vanja mi ha fatto capire anche un’altra cosa importante, tra le molte, cioè che tutti siamo attratti dall’orribile, inorridiamo davanti a certi fatti per liberarci dal senso di disagio, per capire che stiamo bene, che certe cose – stavolta – sono capitate ad altri.
Solo che cose come la guerra non dovrebbero capitare proprio a nessuno.
Nessuno dovrebbe morire così. Nessuno dovrebbe uccidere ed essere giustificato dalla propria nazione, perché di fronte c’è il nemico. (Poi lasciamo stare, nello specifico, cosa sono state le guerre balcaniche e il concetto di nemico)
Anche perché chi, come Vanja, ha ucciso dovrà convivere per sempre con questo demone e capire chi è veramente.
E il tema della morte è un ulteriore interessante argomento affrontato dall’autore, analizzato da più angolazioni, ma sul quale sorvolo per evitare di dirvi cose che potrebbero svelare troppo.
Così, attraverso Vanja che ci racconta della guerra e del suo personale dopoguerra, vediamo la società, come è cambiata da prima a dopo, e cosa è restato. E forse capiamo un po’ di più anche noi stessi.
Recensione di Chiara Carnio
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