IL PIANTO DELL’ ALBA ultima ombra per il Commissario Ricciardi, di Maurizio De Giovanni
Recensione 1
Maurizio De Giovanni: Il pianto dell’alba.
Questo è l’ultimo dei racconti con protagonista il commissario Ricciardi.
L’epilogo?
Certo che (e lo si può dire senza spoilerare, perché i fan di Ricciardi già lo sanno) il finale è brutto “ma brutto assai!”
Sin dalle prime pagine, l’autore lascia intuire quello che succederà.
Sin dalle prime pagine si avverte un senso di precarietà, di serenità provvisoria.
Si consuma subito un dramma e, questa volta, Ricciardi è coinvolto più del solito. I sensi di colpa si mescolano con i dubbi su ciò che può essere realmente accaduto, sul perché sia accaduto.
No, le cose non possono essere andate come la scena del delitto vorrebbe far credere, si può “fregare” tutti ma non Ricciardi, perché a lui i morti raccontano i loro ultimi istanti di vita ed in quella stanza, invece, tutto tace.
E quando Enrica gli chiede, sottovoce per non farsi sentire da Nelide, quale fossero state le ultime parole pronunciate, Ricciardi risponde amaramente “Non c’era!”
L’indagine è complicata, c’è qualche cosa di molto grosso dietro, persone molto potenti. Ricciardi, Maione e Modo indagano, malgrado siano stati diffidati dal farlo, nonostante i grossi rischi.
Ed ancora una volta, grazie all’aiuto dell’insostituibile “Bambinella” e di molti altri che offriranno, più o meno spontaneamente, la loro collaborazione, si riuscirà ad arrivare alla verità.
Non uno dei migliori libri delle serie, sia per l’indagine complessa ed a tratti anche un po’ inverosimile e, soprattutto, come dicevo per il finale.
Ma sarà veramente la fine? Per due donne che escono di scena, ce ne sono altre due per le quali, secondo me, c’è ancora molto da dire, quindi, non ci resta che attendere…
Recensione di Paola Magaalotti
Recensione 2
“Il pianto dell’alba” è forse il romanzo più realistico che sia stato scritto da Maurizio De Giovanni.
La saga di Luigi Alfredo Ricciardi, commissario della squadra omicidi in servizio nella Regia Questura della Napoli dell’epoca fascista, termina esattamente come doveva terminare.
Perché il barone di Malomonte, come altrimenti conosciuto, non è che una lente d’ingrandimento, con cui lo scrittore napoletano scruta i fatti grigi e le emozioni nefaste della sua, della nostra Napoli, in un passato neanche tanto lontano. Modo, Maione, Bambinella, Livia, Falco sono esattamente non i personaggi di un romanzo, ma i protagonisti effettivi di un preciso scorcio d’epoca, caratterizzato da un clima funebre e funereo. Il “fatto” non è un fenomeno paranormale, in sé e per sé, è l’emblema dell’estrema, direi parossistica, sensibilità d’animo del nostro poliziotto, egli vede quello che gli altri, magari anche per l’ottusa propaganda del regime, non vedono: gli ultimi istanti delle morti violente, che sono poi gli ultimi singulti di un’era e di una società violenta, reazionaria, falsa, ipocrita, demagogica, che sfocerà a breve in ben altri lutti.
Tutte le cose belle della vita terminano, è un dato di fatto: ma hanno di bello anche il fatto che sono ripetibili, la vita si rinnova sempre. Perciò il capitolo finale non è struggente, è bensì un canto di speranza: assume la forma di un pianto, certo, ma la voce di una bambina è sempre un canto. Che echeggia non più nel buio del fascismo, ma nella luce dell’alba.
Commenta per primo