IL PRETE BELLO, di Goffredo Parise
Vicenza, anni Trenta, gli anni del consenso, dell’Italietta che si atteggia Impero coloniale, dove la provincia ha strade bianche, contadini inurbati e una giovane marmaglia di piccoli straccioni, la naia, che sbarca il lunario a forza di espedienti. Qui Sergio e Cena vivono una difficile infanzia di periferia, dove domina lo scenario Don Gastone, il prete bello, totem erotico di tutte le zitelle di paese, finché non arriva Fedora, giovane prostituta a conturbare il curato, rapito in via definitiva. Tutto è grottesco in Parise, il suo Neorealismo degenera per vie naturali in caricature, macchiette, deformazioni professionali che strappano il sorriso, mentre una vena amara scorre in sordina, in disordinata poesia. Queste infanzie lacerate di figli di nessuno si somigliano tutte, dai ragazzi di vita a via del Campo, ma in Parise gli occhi bambini si dilatano sul vuoto, c’è una punta di sangue tradito, un vuoto esistenziale in partenza, un bisogno d’affetto inesausto. L’effetto è sorprendente e l’eredità del ricordo si assegna in finale.
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